Il coraggio della determinazione
Pediatra – o meglio dottoressa Mirella come era solita essere chiamata sia dai pazienti quando erano un po’ più grandini sia dalle mamme – ma anche moglie, madre e nonna: la nostra mamma, la dottoressa Mirella o semplicemente Mirella, è stata tutto questo.
Contro il desiderio dei genitori, che desideravano che continuasse la tradizione del commercio (il padre aveva una macelleria e la mamma un negozio di giocattoli) frequentò il liceo scientifico per poi realizzare il suo sogno iscrivendosi, nei primi anni ’50, all’Università di Bologna, facoltà di Medicina e Chirurgia Generale
Si iscrisse circa sei anni dopo l’introduzione del diritto di voto alle donne, quando la televisione ancora non esisteva e l’Italia, gravata ancora da un ragguardevole tasso di analfabetismo, stava uscendo da un difficile dopo guerra.
Una società all’epoca decisamente “maschilista”: la percentuale di donne iscritte era di circa il 25% del totale e le laureate – in particolare in materie come la medicina – erano veramente molto poche e il medico era considerato una professione da uomini e non da donne, nonostante l’entrata in vigore nel 1946 della Costituzione che sanciva la parità tra uomo e donna.
A dispetto di questo contesto, Mirella si laureò nel 1958 cominciando subito la professione, prima a Ravenna – città natale – per poi, una volta conseguita la specializzazione in Pediatria, trasferirsi, per motivi professionali di nostro padre, a Gela in Sicilia.
Nella terra del Gattopardo aprì uno studio medico di Pediatria, rompendo gli schemi di una società rigidamente patriarcale, che rimase molto stupita nel vedere una donna emancipata, laureata, che esercitava la professione di medico, guidava l’automobile e, che senza problemi, interloquiva con tutti con naturalezza e senza alcuna timidezza.
Nel 1964 la decisone di tornare “nel continente”. La scomparsa prematura di Enrico Mattei accelerò la decisione di nostro padre di abbandonare, a malincuore, quella che diventò l’ENI, per scegliere Brescia, città dove nostra madre, grazie anche alla notevole esperienza maturata in Sicilia, ebbe la fortuna di lavorare con il Prof. Giuseppe Cesare Abba che ancora oggi ricordiamo con stima e affetto.
Erano gli anni in cui il reparto di pediatria e gli altri reparti dedicati all’infanzia non erano ancora parte integrante degli Spedali Civili di Brescia, avendo due sedi autonome: l’Ospedalino dei bambini, meglio conosciuto con il nome di “Ronchettino”, e “l’Umberto I”.
La dottoressa Mirella fu assunta al “Ronchettino”, dove lavorò fino alla nascita di Eleonora, l’ultima figlia, nel 1967. Il lavoro molto impegnativo, i consultori in provincia, le guardie mediche e tre figli indussero la nostra mamma a scegliere la libera professione, aprendo uno studio Pediatrico prima all’interno della sua abitazione (con qualche criticità per la famiglia) e poi sempre nella zona di via Veneto in altre due distinte sedi.
Nel 1996 decise di ritirarsi dopo oltre 35 anni di professione che le hanno dato grandi soddisfazioni, caratterizzati, fin dai primi momenti, da coraggio, dedizione, grande umanità, senso del dovere, onestà e, come è stato per nostro padre, interpretando il concetto di lavoro come “valore” che per lei era qualcosa in più: una missione, quella missione etica che, come medico, ti impone di fare del bene e aiutare gli altri “senza se e senza ma”.
Le visite a domicilio (“Il bambino malato non si sposta”), la totale disponibilità anche per un breve consulto telefonico – il telefono squillava non-stop a casa – le uscite anche notturne nei casi più gravi (chiedeva solo di essere venuta a prendere), l’abitudine di visitare il bambino anche due o tre volte di seguito per monitorare l’evoluzione della malattia e della guarigione, le visite multiple a tanti bambini soprattutto in Sicilia quando si trovava di fronte a famiglie molto numerose.
Al denaro dava un’importanza relativa: “non si preoccupi mi pagherà la prossima volta”, “i bambini vanno visti tante volte e non posso ogni volta farmi pagare”, erano solo alcune frasi che ci hanno riferito nel tempo alcune sue care clienti.
Spesso le persone associavano il nostro cognome alla dottoressa Francia, esprimendo immediatamente parole di riconoscenza e stima nei confronti delle modalità con cui svolgeva la professione, e raccontavano come la nostra mamma fosse una persona di grande umanità, disponibile ad insegnare il ruolo di mamma alle giovani mamme insegnando loro tutti i trucchi per allevare bene i bambini.
Arrivava in casa con il suo inconfondibile sorriso e accento che non tradiva la sua provenienza romagnola, faceva mettere il bambino su un tavolo (la maggior parte delle volte quello della cucina) dove lo visitava e, una volta terminato, si sedeva per prendere un caffè, fare due chiacchiere e scrivere su un quadernetto ciò che la mamma doveva fare.
Consigli pragmatici, ben spiegati ed efficaci, al punto che alcune sue ex clienti conservano a tutt’oggi quei preziosi appunti per i nipotini.
Generazioni di bambini sono passati sotto le sue esperte mani – le diagnosi, diceva, bisogna farle “toccando il bambino” – ma soprattutto era una sorta di psicologa per le mamme, talvolta le “vere” pazienti, che trovavano in lei tranquillità e un riferimento maieutico.
La nostra mamma ha sempre lavorato con passione e con amore, dedicando tanto tempo alla propria professione ma allo stesso tempo non trascurando mai la famiglia in un non facile equilibrio.
Un equilibrio che aveva saputo trovare grazie al suo pragmatismo, alla schiettezza e alla determinazione tipici della Romagna, la sua terra d’origine. Per questo possiamo affermare che era una donna forte con un carattere che le aveva permesso di gestire anche una persona non facile come nostro padre.
Era una donna dolce ma allo stesso tempo decisa e non certo molto incline ai “baci e agli abbracci”: per lei esisteva solo il bianco e il nero.
Il grigio non lo amava: era schietta e determinata, qualche volta “oltrepassando il limite”, soprattutto quando aveva a che fare con i suoi colleghi medici che la volevano curare o nei nostri riguardi quando le suggerivamo cosa fare o con il nostro papà quando arrivava in ritardo a casa.
Ma la dottoressa Mirella era anche una mamma e una moglie e, nonostante gli impegni professionali, era sempre presente con grande generosità, qualche giusta “sgridata” (anche contro mio padre che era molto impegnativo…) e la volontà di trovare sempre un giusto compromesso tra la severità del genitore (ma a quello ci pensava soprattutto mio padre) e la comprensione di una mamma.
Dovendo lavorare senza orari, tre figli non erano semplici da gestire, ma, un po’ con l’aiuto della nonna e un po’ con il sano principio per cui “bisogna arrangiarsi”, ha sempre lavorato, vincendo le perplessità di mio padre, che vedeva la sua professione troppo gravosa nei confronti della famiglia.
Un esempio per tutti, soprattutto oggi, che spesso si discute del ruolo della donna nella società: un esempio di coraggio, determinazione, libertà, etica professionale e grande volontà.
I tuoi figli Pierlamberto, Anna Maria ed Eleonora