C’è un sogno ricorrente che si insinua la notte. “Sono in ambulatorio e non funziona il SISS”. Dopo quasi 39 anni di servizio come medico di medicina generale, la dottoressa Adriana Loglio è andata in pensione sette anni fa, ma quell’incubo ancora non l’abbandona.
Sei andata in pensione qualche anno prima del termine previsto, cosa ti ha portato a questa scelta? Vorrei che passasse un messaggio chiaro: non ero stanca della medicina. Io ho deciso di fare il medico quando avevo solo sei anni, e non ho più cambiato idea. La medicina è stata la mia vita, e mi ha dato grandi soddisfazioni. Alla fine però ero esausta, ed a pesare è stato soprattutto l’eccesso di burocrazia che mi ha sfinito, portando via tempo alla clinica.
Durante gli anni di attività non ti sei mai risparmiata, e tra l’altro hai dato un contributo rilevante alla stesura del nuovo Codice deontologico.
Ho sempre creduto nel mio lavoro. Oltre a dedicarmi all’ambulatorio, ho lavorato nel sindacato e sono stata componente del Comitato aziendale. Per diversi anni sono stata membro del Comitato Etico provinciale degli Spedali Civili. Importante è stata l’esperienza come consigliere dell’Ordine dei Medici di Brescia, che mi ha portato a lavorare intensamente sulla bozza del nuovo Codice di deontologia professionale, per proporre commenti e migliorie al testo, in vista dell’approvazione a livello nazionale, avvenuta nel 2014. Sempre per l’Ordine ho seguito il progetto sul Biotestamento, con la stesura di un opuscolo divulgativo rivolto alla cittadinanza, e quello sul Decalogo per una buona prevenzione, dedicato alla prevenzione oncologica.
Quando è stata la tua svolta professionale?
E’ stata a quarant’anni, quando mi sono accostata ad alcuni aspetti della medicina che sarebbero diventati miei “special interests”: il counseling, la medicina narrativa e le tecniche di comunicazione a Torino con Giorgio Bert e Silvana Quadrino, gli incontri filosofici con Sandro Spinsanti ad Assisi e i suoi corsi a Roma, che avrebbero aperto la via a percorsi sulle Medical humanities, la bioetica, la sociologia, la storia della medicina, aspetti che hanno rinnovato la mia impostazione nel rapporto con il paziente. Anche gli approfondimenti sulle cure palliative sono stati fondamentali perché l’accompagnamento del paziente è sempre stata la mia priorità e ne ho seguiti molti che desideravano congedarsi dalla vita a casa, attorniati dai loro cari.
In quegli anni hai maturato anche una rivoluzione che potremmo definire filosofica.
E’ stata la scoperta di Seneca e dello stoicismo, la svolta filosofica che mi ha cambiato la vita. Insieme a loro anche Montaigne con gli Essais, Schopenhauer e altri autori che conservo nella mia biblioteca tematica, cresciuta nel tempo. Tutto questo mi ha insegnato l’importanza della cura del sé e la necessità di dedicare del tempo a me stessa. Essere sostenuti da una concezione filosofica di un certo tipo ti dà una forza immensa, soprattutto nei momenti di difficoltà.
Cosa ti aveva logorato della professione?
L’eccesso e il carico di burocrazia – di cui il sistema SISS è l’emblema – era logorante, portava via tempo e non lasciava molto spazio per fare il resto. I ritmi erano sempre più frenetici e costringevano a sottrarre molto alla famiglia e alla vita privata. Per mantenere certi standard ci vogliono energie notevoli. Mi sono resa conto che la sera non riuscivo più a leggere perché ero stanca morta. Mi scappava via tutto, non ero più padrona di niente.
Anche i pazienti sono diversi…
Sono indubbiamente cambiati perché è cambiata la società, e il medico si trova sempre più spesso a gestire il conflitto, se non addirittura episodi di aggressioni. A me è capitato due volte di dover chiamare i Carabinieri. Mi rendevo conto che dover fronteggiare la loro arroganza, le pretese, la maleducazione non era più sostenibile.
Com’è stato per te il “dopo”?
Quando si va in pensione è importante avere costruito qualcosa prima, essersi creati degli interessi. Non ci si può fare trovare impreparati, altrimenti è facile ritrovarsi senza sapere cosa fare.
Io ho sempre coltivato l’interesse per la musica, i concerti e l’opera, soprattutto la musica barocca e Bach, il genio assoluto, che mi accompagna ogni giorno. Poi c’è lo spazio che dedico alla lettura e allo studio, in particolare la saggistica e la storia contemporanea.
Accanto ai concerti alla Scala e al Festival Monteverdi di Cremona c’è spazio anche per la cura di San Marzano e zucchine…
L’orto ha qualcosa di trascendente, e curarlo mi assorbe con soddisfazione, così come il giardino in cui coltivo, fra l’altro, rose di varie specie. Poi c’è l’educazione dei nipoti, che è una grande responsabilità: trasmettere loro qualcosa che li accompagnerà nella vita ti ricorda quello che hai imparato dai tuoi genitori e nonni. Infatti io dico sempre che non posso più fare ricette, cosa che per qualcuno può essere avvertita come una perdita di ruolo, ma sapete che ruolo mi sono presa? Insegnare a dei ragazzi e lasciare loro qualcosa è gettare un orizzonte sul futuro.
Più in generale penso che nel “dopo” la donna sia aiutata dalla sua capacità di “riciclarsi” a nuova vita, mentre sembra che gli uomini siano più svantaggiati nella vecchiaia perché tendono ad aggrapparsi al ruolo.
Come vedi la medicina di oggi? Nella medicina di oggi vedo tanta sciatteria, trascuratezza e ignoranza. Manca una visione d’insieme e si è persa la passione. Per essere un buon medico sono indispensabili la passione, la curiosità e la capacità di ascolto. Altrimenti ci si riduce ad essere solo dei tecnici, degli esecutori di algoritmi. Il paziente ha bisogno di una persona che lo guardi negli occhi, lo ascolti e lo tocchi. Credo che il cuore della professione si stia smarrendo.