Si incontra un paziente e si cerca di capire chi è, in che corpo, in che persona, si è andata a ficcare la malattia che l’ha portato in ospedale; bisogna inquadrarlo, confrontarsi con i colleghi che l’hanno accolto in corsia.
È stata ricoverata d’urgenza due giorni prima, per una brutta infezione, ha risposto alla terapia. Quando entro in camera è seduta su una sedia a rotelle, ha il camice dell’ospedale (perché non la sua vestaglia?), capelli stopposi, taglio a scodella, pelle e occhi giallo-grigi, senescente: è più o meno come me l’hanno descritta nella riunione del mattino, la “tipica paziente di casa di riposo”; la documentazione clinica è scadente, la porteranno; è un’“ex-psichiatrica”?
Inizio a indagare lo stato mentale. Parla volentieri, velocemente, ogni poco si distrae.
Chiedo l’età, dice di essere nata nel ’27, se è sposata, “no vedova”, che lavoro ha fatto, “la cameriera”, ha figli, “sì uno”, di 30 anni (!); bene, devo prendermi più tempo, farla raccontare e ascoltare.
È nata ed è vissuta in campagna. Per salvare il matrimonio è stato necessario trovare un lavoro che la tenesse il più possibile lontano da casa, la convivenza non era possibile. Il marito, mandriano, beveva troppo, quando ubriaco diventava violento, la picchiava. Poco dopo essere sposati, nell’acme di un delirio di gelosia l’aveva cercata nella casa dove lei “era a servizio” e dove dormiva nei giorni feriali, ed entrato in camera, al buio, aveva percosso la figlia della “signora” che quella notte, come ogni tanto succedeva quando la “signora” usciva, aveva dovuto ospitare nel suo letto.
Era un poco di buono, ma “dovevo volergli bene, l’avevo sposato”.
Ancora. Non le è mai piaciuto abitare in paese. Ci rimaneva il meno possibile. Di giorno lavorava e tutte le sere prendeva un treno e andava in città diverse: Verona, Padova, Ferrara, Parma (Parma era una bella città, non Brescia!), raramente a Milano, Pavia. Spesso andava in Svizzera, “lì i treni sono molto belli, puntuali”, “il migliore è quello rosso”, ma lei non ci è mai salita, “ci andava spesso la mia signora”. Ha visitato posti “molto” interessanti, conosciuto tante persone, anche “molto” importanti, gente elegante, gran signori, ci si dava del tu. La mattina rientrava per il lavoro.
Il figlio non lo vede mai, è malato, “ha la sindrome”, quale, “la sindrome”. “Deve ritenersi fortunato perché con quel padre avrebbe potuto diventare un delinquente, un poco di buono”. Crede abbia un lavoro, non chiede soldi, non beve, non ruba. Si droga? “Questo dottore non lo so, oggi lo fanno tutti, non posso mettere la mano sul fuoco”. La visito, la saluto, chiudo la porta e ritorno nel mondo di tutti, lasciando lei nel suo.