Ieri la visita a un mio vecchio amico, architetto, professore universitario da poco in pensione. Un “barone”.
L’avevo conosciuto più di venti anni fa a casa di una mia paziente ultranovantenne: le aveva completamente rifatto l’abitazione con soluzioni stravaganti, arredi futuristici, facendola divertire, spendere un sacco di denaro, e per questo, facendo imbufalire i nipoti.
Divenni amico quando un giorno bussò alla porta del mio studio, all’improvviso, senza preannunciare il suo arrivo, imponendomi il suo ricovero, immediatamente (“sono esaurito, senza energia, a pezzi”). Voleva far perdere le sue tracce – in fuga da una donna? – voleva sparire.
Da quella volta abbiamo iniziato a vederci con frequenza variabile, per amicizia, per suoi acciacchi immaginari o per malattie vere. Ogni Natale, da vent’anni, mi manda uno scatolone di biscotti tipici della sua terra d’origine, un sacco di noci, un prosciutto.
La scorsa settimana ha telefonato chiedendo di vedermi. Mi avevano detto della ripresa di una malattia tumorale, che stava molto male, avrei dovuto andare a salutarlo ierlaltro, ma pensando di non aver tempo sufficiente per starci un po’ ho rimandato a ieri.
Mi ha accolto con gli occhialini dell’ossigeno, dimagrito di almeno trenta chili rispetto alla volta precedente che l’avevo incontrato (tre mesi fa, a Natale) e con un’alopecia da chemioterapia.
Ci siamo seduti al tavolo da pranzo, ha fatto portare dalla colf degli stuzzichini e una bottiglia di champagne blanc de blanc ghiacciato che mi ha fatto stappare e poi guardandomi in faccia mi ha chiesto di aiutarlo a morire. Gli rimane ancora poco tempo di vita, il suo cancro è uno dei più gravi, non vuole finire in un hospice e vorrebbe evitare di dover andare in Svizzera o in Belgio o in Olanda. Mi ha detto di avere due revolver in casa, ma pur non escludendo di dovervi ricorrere, vorrebbe evitare anche di far troppo clamore creando scandalo.
Ha predisposto tutto per le diverse opzioni, “non c’è fretta”, ma vuole la mia disponibilità ad assisterlo quando deciderà che è giunto il momento. L’ho guardato in faccia e senza tanti tentennamenti gli ho detto che quando sarà necessario potrà contare su di me.
Detto questo (nei lunghi colloqui con un mio amico suicidologo padovano, ho imparato che chi vuole togliersi la vita deve avere la sicurezza di poterlo fare, è il modo con il quale temporaneamente trova la possibilità di sfuggire alla morsa del dolore) ho anche pensato che abita al quarto piano e che se avesse già raggiunto la determinazione di togliersi la vita, a prescindere dalle premesse sopra riportate, potrebbe farlo facilmente quando vuole senza il mio aiuto. Probabilmente c’è davvero ancora un po’ di tempo.
Ho chiesto di dirmi della sua chemioterapia, dei suoi esami, dell’Istituto Universitario che ha lasciato, della qualità dei suoi allievi, della qualità degli studenti di oggi… L’ho portato ai ricordi, alla relazione con suo padre e sua madre, alle sue numerose mogli, alle infinite donne che lui mi ha ripetuto di aver avuto e richiamandogli i colloqui fatti venti anni fa siamo arrivati al senso della sua vita, di allora e di oggi, alla sua incapacità di mantenere relazioni stabili, alla sua solitudine. Ha parlato per almeno un’ora. Ora che si era disvelato avevo la possibilità di tenerlo per mano. Quando me ne sono andato il suo volto era completamente cambiato. Gli occhi vivi e credo anche felici. Gli ho garantito che sarei passato presto per riparlare del suo progetto.
Mi aspetta un compito difficile. Chi vuole levar la mano su di sé giunge invariabilmente a farlo se non trova un’altra mano che lo trattiene.