L’indicazione all’intervento cardiochirurgico, facendo riferimento alla sola malattia valvolare, è indiscutibile; il problema è capire se il paziente sarà in grado di sopportare l’intervento, quanto è grande il rischio di complicanze, se l’intervento e l’anestesia produrranno uno scadimento transitorio e/o permanente dello stato mentale e della sua autosufficienza: riuscirà il paziente dopo l’intervento a fare quello che faceva prima? Avrà bisogno di aiuto? Ha una rete familiare in grado di accoglierlo alla dimissione in caso di necessità? A queste domande si deve dare una risposta quando il paziente ha più di ottant’anni.
Stamattina ho valutato una paziente di 87 anni candidata alla cardiochirurgia con probabilità elevata che molte delle domande sopra elencate diano risposta sfavorevole; eppure il mio giudizio incoraggia l’intervento: così com’è la paziente non ha più una vita decente. Negli ultimi mesi è stata ricoverata innumerevoli volte e sempre per sintomi dovuti alla malattia cardiaca. L’intervento, andasse bene, probabilmente non gli modificherà di molto la spettanza di vita, ma è l’unica chance che può migliorarne la qualità.
Redigo la scheda di valutazione cercando di motivare con dati oggettivi la mia convinzione affinché si proceda con la procedura.
Dopo tre ore dalla compilazione vengo chiamato da una giovane collega che mi chiede se veramente sono certo di quanto scritto; la risposta è affermativa. Dall’ambulatorio sta salendo a visitare la paziente; l’infermiera di settore l’ha chiamata perché la paziente parla male, farfuglia parole confusamente, è afasica, potrebbe aver avuto un ictus. È possibile, ovvio, è una paziente con malattia valvolare e fibrillazione atriale, ugualmente dico di darmi informazioni dirette, anzi che la raggiungo in corsia. All’arrivo la incontro, ripeto le motivazioni che mi hanno indotto a dare un sostanziale via libera all’intervento e insieme entriamo nella camera della paziente.
La paziente è a letto, mi sorride (ci conosciamo, ci siamo incontrati poche ore prima!) e allunga il braccio per darmi la mano. Avesse avuto un ictus gli effetti, quantomeno per ora, non sono stati gravi: un deficit di linguaggio si associa generalmente a un’emiparesi destra, che la paziente evidentemente non ha. Chiedo come sta e lei portandosi la mano alla bocca come per proteggerla risponde con uno “Fcusi signor dottore fe parlo male, afpetto i miei a mezzogiorno, volevo avere la bocca in ordine e mi fono fistemata la dentiera, ma l’ho meffa male e con troppo Kukident; ora non riefco a toglierla, per quefto fatico a parlare”.
Sorrido e la lascio con un “passavo di qua e desideravo salutarla nuovamente, lei mi sta simpatica, vedrà che andrà tutto bene”.