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Notiziario dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Brescia – aut. Tribunale di Brescia n. 195/1962

Verso una nuova riforma della responsabilità per colpa dei professionisti sanitari

È noto che il ministro della giustizia ha istituito il 28 marzo 2013 una «Commissione per lo studio e l’approfondimento delle problematiche relative alla colpa professionale medica», sia civile che penale, nella prospettiva di una riforma della c.d. legge Gelli-Bianco del 2017, la quale aveva a sua volta modificato la c.d. legge Balduzzi, del 2012. Muoviamo peraltro, in questa sede, dalla responsabilità penale: essendo quella che preoccupa maggiormente date le sue conseguenze potenziali, in quanto non suscettibili di essere coperte sul piano assicurativo.

In proposito è necessaria una premessa, relativa agli elementi di irrazionalità dell’intera responsabilità penale per colpa, al di là dei profili peculiari che caratterizzano la responsabilità di ambito medico. Vi è reato colposo, infatti, quando si causa un evento lesivo non voluto (altrimenti si tratterebbe di dolo) rilevante ai fini penali – nel nostro caso, lesioni o morte – attraverso la violazione di una regola c.d. cautelare, scritta o anche non scritta, finalizzata a evitarlo, da parte di un soggetto tenuto alla salvaguardia del bene leso. Premesso che sussiste la causalità della condotta rispetto all’evento quando si può affermare oltre ogni ragionevole dubbio, sulla base di cognizioni scientifiche, che, ove la condotta non fosse stata posta in essere in quel dato modo, l’evento non si sarebbe verificato.

Orbene, posto che la condotta colposa – dovuta nel senso predetto, come descrive l’art. 43, primo comma, c.p., a negligenza, imprudenza o imperizia – non è stata prescelta al fine di causare l’evento lesivo, è chiaro che essa, di regola, lo produce in un numero limitato di casi: per esempio, non tutte le violazioni del codice della strada si traducono in un incidente con eventuali danni alle persone; e, del resto, non tutti gli eventi colposamente prodotti verranno accertati. Per cui finisce per rispondere del reato colposo il soggetto più sfortunato tra i molti che pure hanno violato una medesima regola cautelare, il quale non è detto sia quello ordinariamente meno affidabile.

Ne deriva che per evitare gli eventi colposamente cagionati risulta decisivo agire onde far sì, nel miglior modo possibile, che le condotte colpose non vengano tenute, e non, invece, punire in maniera enfatica quando un evento colposo si sia verificato. Come bene si evince attraverso gli aumenti di pena, di entità molto pesante, introdotti nel caso di esiti lesivi dovuti al mancato rispetto di norme sulla infortunistica nel lavoro e, ancor più, con riguardo al c.d. omicidio stradale (e alle lesioni stradali), aumenti che non hanno per nulla garantito una diminuzione della casistica (non a caso prodottasi, invece, attraverso l’apprestamento dei tutor nelle autostrade).

I problemi predetti si manifestano ancor più acuti con riguardo alla responsabilità sanitaria, e in particolare a quella medica. Innanzitutto, il medico tiene condotte rischiose (diversamente dall’automobilista o dall’imprenditore) non già nell’interesse proprio, ma nell’interesse delle persone stesse che potrebbero essere vittima di un errore (come vale per poche altre categorie di soggetti: si pensi ai controllori del traffico aereo). Inoltre, tiene condotte che, anche quando del tutto appropriate, possono pur sempre produrre eventi avversi, circa i quali vengono nondimeno attivati, spesso, procedimenti civili e penali, ancorché, poi, non sfocino nell’attribuzione di responsabilità. D’altra parte il medico, soprattutto in alcuni ruoli, è tenuto ad assumere di continuo decisioni delicate – sulla base dei dati di cui dispone e, sovente, con poco tempo a disposizione – in numero ben maggiore di quanto accada per altri professionisti: con aumento oggettivo della possibilità di un errore. Né si può trascurare che la qualità della condotta medica può essere condizionata da carenze di risorse e da inadeguatezze organizzative del tutto indipendenti rispetto alla volontà del sanitario che interagisce con il paziente.

È ovvio, poi, che l’attivazione di un procedimento giudiziario, soprattutto penale, non rimane affatto indolore ove non sfoci – e così è nella grande maggioranza dei casi – in una condanna: produce comunque, infatti, ansia, costi economici, danno d’immagine. Un’attivazione peraltro favorita, nell’ambito penale, dal fatto che manca in Italia qualsiasi filtro successivo alla denuncia: il pubblico ministero deve esercitare l’azione penale e la stessa richiesta, subito dopo, di un’archiviazione da parte del medesimo è resa impossibile, molto spesso, per la necessità di riscontri peritali.

L’effetto, a tutti noto, rischia di essere la c.d. medicina difensiva, che non è soltanto quella di carattere positivo, sulla quale focalizza il suo interesse il governo perché comporterebbe un forte aggravio di costi economici per il Servizio sanitario nazionale: consistendo essa nella richiesta di diagnostica o consultazioni non necessarie da parte del medico, per fini di accreditamento della propria condotta scrupolosa in un eventuale processo. È moralmente ben più grave, infatti, la tentazione della medicina difensiva di carattere negativo, consistente nell’astenersi dal proporre al malato un trattamento non esente da alcuni rischi significativi, ma pur sempre proporzionato e necessario, per il timore che, in caso di evento avverso, ne scaturisca una vicenda giudiziaria. Restando certamente vero che in quel caso il medico potrebbe rispondere dell’esito lesivo a titolo di reato omissivo improprio, sulla base dell’art. 40, secondo comma, c.p. («non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo»), ma con la necessità di provare, oltre ogni ragionevole dubbio, che simile esito non si sarebbe verificato, in quel medesimo contesto temporale, ove il trattamento, invece, fosse stato posto in essere. Non posso del resto dimenticare come mia moglie, deceduta anni orsono per una patologia oncologica, avesse deciso di non chiedere mai informazioni sugli effetti collaterali delle terapie che a lungo consentirono il contrasto della malattia, dopo aver constatato che solo ponendo quella domanda i medici si ritraevano, dubitando che ad essa potesse soggiacere un’incertezza sul consenso (e sebbene il difetto del consenso, come diremo, rilevi solo sul piano civile).

Ma non si deve trascurare un ulteriore effetto estremamente nocivo in termini preventivi del regime attuale della responsabilità per colpa, e anche della colpa medica. Quello di una totale compromissione della trasparenza, costituente elemento indispensabile per migliorare gli standard comportamentali ed evitare errori futuri. Nel contesto attuale nessuno ammetterà mai nulla: non solo errori veri e propri, ma anche il fatto che in una data situazione, ripensando il tutto con agio temporale a posteriori, si sarebbe potuto fare, forse, qualcosa di meglio. E ciò per il timore che ne conseguano conseguenze in termini di responsabilità colposa.

Motivi, tutti quelli esposti, per cui solo in pochissimi paesi la responsabilità per colpa del personale sanitario rileva anche ai fini penali, salvo, talora, il caso di errori macroscopici: risultando, la normativa italiana in materia, dunque, una rara eccezione.

Il nostro legislatore è peraltro intervenuto due volte in meno di dieci anni, come s’è detto, per limitare la responsabilità penale per colpa dei professionisti sanitari (al che si sono aggiunte le norme marginali di c.d. scudo penale in rapporto all’emergenza Covid-19), ma senza effetti soddisfacenti. La disciplina attuale imperniata sull’art. 590-sexies, secondo comma, c.p., infatti, potrebbe rappresentare a prima vista una protezione efficace, in quanto esclude la responsabilità del sanitario per (sola) imperizia «quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Subito, tuttavia, ne sono derivati dubbi interpretativi. In particolare: ove ci si muova applicando linee guida ufficializzate dall’Istituto superiore di sanità pertinenti al caso concreto o, in assenza, alle norme di buona pratica, ogni errore applicativo diverrebbe irrilevante, anche il più grave? E come si definisce il confine preciso fra imperizia e negligenza o imprudenza, nozioni, le ultime due, cui la norma non attribuisce rilievo?

In proposito, la Cassazione a sezioni unite, forzando invero la volontà del parlamento, che con l’art. 590-sexies aveva escluso la limitazione della punibilità alla sola colpa lieve, come invece prevedeva espressamente la legge Balduzzi, ha di fatto reintrodotto tale limite, mantenendo quindi la responsabilità penale del professionista sanitario nel caso di imperizia per colpa non lieve (con i connessi problemi di confine relativi a tale concetto) e precisando, inoltre, che l’esclusione della punibilità per colpa lieve conseguente a imperizia non vale rispetto a condotte le quali non siano riconducibili a linee guida e norme di buona pratica o che attengano alla individuazione e alla scelta corretta delle linee guida e delle norme di buona pratica applicabili.

Dovendosi in ogni caso tener presente che le stesse linee guida non costituiscono leggi cautelari scritte (che sono vincolanti, salvo un’inosservanza non addebitabile a responsabilità del soggetto agente), ma solo raccomandazioni tali da non intaccare la competenza del medico nel valutare il miglior approccio sanitario nella situazione specifica che si trovi ad affrontare. Per cui, nel caso stesso di colpa per imperizia ritenuta non lieve nell’applicazione di linee guida, come negli altri casi rilevanti suesposti, varranno i criteri generali dell’imputazione colposa: ci si dovrà chiedere, cioè, se un sanitario competente per il trattamento in oggetto, nel medesimo contesto fattuale o temporale in cui ha agito il sanitario coinvolto, avrebbe potuto prevedere la possibilità che, agendo in quel dato modo, si sarebbe potuto produrre l’evento lesivo verificatosi e, soprattutto, se quel medesimo sanitario avrebbe potuto evitare di agire proprio in quel modo, valutando rischi e benefici per il paziente (posto che se il medico dovesse sempre astenersi quando può prevedere un evento avverso, vale a dire in presenza di un qualsiasi rischio, non agirebbe mai).

Che fare, dunque? Una cosa dev’essere chiara: non si tratta di coprire errori, né tantomeno di rinunciare a prevenirli. Si tratta, piuttosto, di pensare a una prevenzione migliore, evitando di esporre il professionista sanitario al continuo timore, del tutto controproducente, di dover subire procedimenti giudiziari, ancorché si sia adoperato al meglio delle sue possibilità. In merito, il ministro della salute s’è spinto a ipotizzare la depenalizzazione della colpa medica, così che essa sarebbe gestita, a parte forse violazioni gravissime, soltanto sul piano civile e su quello della responsabilità professionale. Il ministro della giustizia, invece, ha dichiarato di ritenere che a un simile risultato non si possa pervenire, perché porrebbe in discussione l’intero sistema della responsabilità penale per colpa: auspicando, piuttosto, scelte volte a limitare il contenzioso penale.

In quest’ultimo senso, tra le proposte ipotizzabili vi è quella di garantire l’estinzione del reato nei casi in cui vi sia stata totale trasparenza circa scelte sanitarie rivelatesi inadeguate; oppure quella di rendere obbligatoria anche con riguardo alla responsabilità penale una procedura di mediazione garantita da riservatezza (sulla falsariga di quanto ora previsto dalla riforma Cartabia), con effetti estintivi del reato ove si sia pervenuti alla chiarificazione dei fatti ed, eventualmente, a definire esigenze risarcitorie, di miglioramento procedurale o di riqualificazione professionale; oppure, ancora, quella di richiedere, in materia, una denuncia già qualificata attraverso una relazione tecnica, onde disincentivare iniziative temerarie. Quantomeno andrebbe acquisita, comunque, la limitazione della responsabilità sanitaria alla colpa grave, offrendone una definizione sufficientemente determinata.

Soprattutto, tuttavia, si dovrebbe valorizzare anche a livello locale il monitoraggio circa gli eventi avversi, nonché il controllo in merito alle prassi cliniche e ai risultati nelle diverse istituzioni sanitarie. 

Potrebbe giovare, inoltre, addivenire a un sistema assicurativo c.d. no fault, cioè non necessariamente dipendente dalla attribuzione di una responsabilità personale.

Di certo, invece, la strada non potrebbe essere costituita dal cedimento alla previsione di obblighi rigidamente formalizzati (fors’anche per considerazioni di carattere economico) quanto ai trattamenti sanitari da adottarsi: il che negherebbe l’autonomia della competenza medica nel definire la condotta più adeguata rispetto alle peculiarità delle situazioni concrete.

Chi scrive tende peraltro a ritenere che compromessi i quali implichino, comunque, il mantenimento della tradizionale responsabilità penale per colpa del personale sanitario siano destinati a rimanere insoddisfacenti.

Il che rimanda a un ultimo monito, attinente non più al tema della malpractice, ma a quello del consenso: nel 2009 la Cassazione a sezioni unite ebbe finalmente a chiarire che violazioni del medesimo nell’ambito di attività sanitarie conformi alla lex artis non si sostanziano in fatti lesivi dell’incolumità personale e rilevano solo sul piano civile o deontologico. Nondimeno, ricorrono frequenti perorazioni onde introdurre un nuovo reato di c.d. attività medica arbitraria. Ma ciò, date le difficoltà che sussistono nell’acquisire un consenso ineccepibile (poiché il consenso è chiamato a fondarsi su un’informazione, nel contempo, completa dal punto di vista tecnico e tale che il destinatario la possa comprendere), porterebbe a incentivare in misura estrema il contenzioso penale, esasperando i problemi sopra esposti.

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