La prima volta viene accompagnata dalla figlia; nonostante i 77 anni ha un portamento da ginnasta. Ha lo sguardo altero, l’occhio azzurro è triste. Già nella prima visita intuisco una sensibilità straordinaria, ma verbalmente inespressa o quantomeno inascoltata, troppi problemi sul tavolo contemporaneamente, spesso scollegati. Si capisce che la sua non è una storia già raccontata.
Dapprima si lamenta della sua instabilità nel cammino, delle sue cadute, per me inverosimili se penso alla sua allure atletica, ma è fin troppo evidente che il male è di altro tipo.
La seconda visita viene sola. Comincia ad aprirsi, parla del primo matrimonio, del rapporto catastrofico con il suo primo marito, “padre biologico” dei suoi figli, del secondo matrimonio e della sua recente vedovanza. Non riferisce sintomi psichici specifici, vuole raccontare.
Così è anche la terza visita. La lascio fare con un certo imbarazzo. Non sono uno psicoterapeuta, non ho strumenti per aiutarla, credo di conoscere solo quelli farmacologici. Alla quarta visita mi porta un manoscritto, un volume di trecento pagine autobiografiche: “lì c’è la mia storia”. Mi chiede di portarlo a casa e di leggerlo, vorrebbe che la conoscessi meglio. Le prometto che lo farò (la lettura delle prima pagine dice la sua buona capacità di scrittura), ma è una bugia, so che non sarà possibile, ho troppo da fare.
Al sesto incontro chiede di farlo lei. Ogni due settimane viene in ambulatorio, si siede, apre il volume, mette gli occhiali e legge uno o due capitoli. Quando il tempo della visita termina, ci salutiamo fissando l’appuntamento per la volta a venire. Così sono i nostri incontri: lei legge, io ascolto. Qualche volta commento il contenuto, altre volte la forma.
Che razza di visita è questa? Ho amici psichiatri ai quali fare riferimento nelle difficoltà, a uno di loro, il più saggio, ho esposto il problema; senza titubanza ha chiesto come sta la signora rispetto alla prima visita. Molto meglio mi pare. Bene, questa è terapia.