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Notiziario dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Brescia – aut. Tribunale di Brescia n. 195/1962

Ritorno a Kabul

Ingresso dell'ospedale della provincia di Tahar, Afghanistan

“Il mio lavoro è più divertente di tanti altri, richiede curiosità e insegna ad accogliere tanti punti di vista, senza pregiudizi”. Paolo Guarneri lavora nella cooperazione internazionale. Di origini bresciane, ormai da molti anni collabora con le ONG e le istituzioni impegnate in molte aree del mondo teatri di guerre, crisi umanitarie, migrazioni forzate.

E’ stato in Libano, Gaza, Iraq, Yemen, Grecia, Venezuela, Siria, Laos, cui si aggiunge l’Afghanistan, Paese dove è tornato più volte, occupandosi in particolare di gestione della logistica di diversi ospedali. Un’esperienza che gli ha fatto toccare con mano le molteplici sfide in ambito sanitario, e che può essere di ispirazione per i medici e in generale gli operatori sanitari che coltivano il desiderio di lavorare per un periodo in questi scenari complessi. Lo abbiamo intervistato.

Raccontaci del perché di questa scelta, del tuo ruolo, delle difficoltà, delle soddisfazioni incontrate.

Ho scelto questo percorso all’Università, frequentavo Economia a Parma e alcuni compagni di studi mi hanno fatto scoprire questo mondo, che mi ha da subito appassionato. Il primo stage è stato in Ecuador, nel 2005, durante l’ultimo anno di Università. Poi nell’autunno dello stesso anno in Pakistan, dopo il terremoto, ho fatto la mia prima vera esperienza nella cooperazione internazionale, che lì è proseguita con il mio primo contratto di lavoro, fino a giugno 2006. In quel periodo mi sono dedicato al coordinamento di progetti di livelihood, per assicurare i mezzi di sussistenza, curando la parte degli acquisti, strutture, trasporti, stoccaggio, approvvigionamento energetico.

Successivamente, quando è iniziata la collaborazione con Emergency, durata sei anni, ho iniziato ad occuparmi di logistica, diventata il mio principale ambito di azione. Ed è proprio lavorando per Emergency che mi sono occupato della gestione dei loro ospedali in Sudan, Sierra Leone, Afghanistan.

In Afghanistan sei stato la prima volta nel periodo 2010-2011. Ora ci sei tornato, trovando uno scenario politico cambiato.

Ai tempi della campagna armata lanciata dagli Stati Uniti in Afghanistan la guerra vera era al sud del Paese, dove rimanevano province sotto il controllo dei Talebani. Adesso che ci sono tornato – ho svolto una consulenza con l’Organizzazione Mondiale della Sanità per la revisione e il monitoraggio dei centri sanitari, finanziati o non da OMS – si è capovolta la situazione: le regole che valevano per pochi territori del sud sono imposte in tutto il Paese, vige un sistema teocratico per cui la religione si fonde con lo Stato Civile, e il primo bando promulgato ha impedito il lavoro delle donne, seguito da quello sull’educazione femminile, che deve fermarsi alla nostra quinta elementare.

Da un diverso punto di vista, invece, la sicurezza raggiunta oggi non è paragonabile a prima, conseguenza di un controllo capillare del territorio che non c’era mai stato. Molte persone non hanno visto i parenti per anni, perché risiedevano in zone dove era pericoloso andare, mentre ora sono posti raggiungibili come tanti altri. Questo per dare la misura di come sia difficile valutare i benefici e i danni di quello che è successo.

Che Paese è l’Afghanistan?

E’ un Paese per l’80% rurale e solo per il 15% urbanizzato, dove vivono 40 milioni di persone. Spostarsi in provincia è come andare indietro di cento anni, ti accorgi che non hai fatto un viaggio nel tempo solo perché vedi gli smartphone, o qualche sparuto pannello solare. Il paesaggio è popolato da animali e utensili da lavoro che da noi possiamo vedere solo nei musei. I nuclei famigliari sono numerosi, con 7/8 figli, più famiglie condividono la stessa casa, il principale mezzo di sussistenza è l’agricoltura, che si deve confrontare con grossi problemi legati all’acqua, alla siccità e al cambiamento climatico.

Dopo la presa di potere dei Taliban, nell’agosto 2021, il sistema sanitario sta affrontando gravi problemi – quali povertà e malnutrizione, come documentano le corrispondenze delle riviste mediche, in particolare The Lancet – ma non è collassato grazie anche all’aiuto internazionale. Qual è il tuo punto di vista?

Il sistema non è crollato, anche se qualcosa è stato chiuso, ci sono meno fondi e alcune strutture sono state accorpate. Si avvertono problemi nei servizi medicali (pensiamo, ad esempio, a quando è necessario calibrare una Tac, operazione condizionata dall’indisponibilità di consulenti che le principali aziende medicali produttrici, con sede negli Stati Uniti, non inviano in Afghanistan), così come la difficoltà ad avere accesso a farmaci di qualità.

Sul fronte degli ospedali, Emergency ha mantenuto sia l’ospedale di Kabul, che quello di Lashkar-gah riconvertito da ospedale di guerra a ospedale di trauma, e quello di Anabah, in Panshir, dove c’è il reparto di maternità: tutti e tre funzionano al 100%. Esiste poi un sistema sanitario “governativo”, che implementa ad esempio programmi sulla malnutrizione infantile, un problema molto avvertito sui territori. Ed esistono gli ospedali privati, quindi a pagamento, sul modello americano.

Che impatto ha avuto l’egemonia Taliban sull’intervento delle Organizzazioni Non Governative?

Nel 2011 in Afghanistan c’erano tutte le organizzazioni del mondo, ora i “super big” sono presenti in scala drammaticamente ridotta. Con il divieto ordinato alle donne di lavorare nelle ONG e svolgere attività umanitarie, e il bando posto alle organizzazioni che si occupano di educazione, che non possono più lavorare, la situazione si è complicata.

C’è poi il problema della separazione totale fra uomini e donne imposta dal regime talebano, e del divieto a proseguire gli studi per le donne, che dal punto di vista sanitario comporterà l’assenza di dottoresse (già ora i medici sono quasi tutti uomini). Solo per seguire le gravidanze al momento ci sono ancora ostetriche e infermiere.

Realtà della cooperazione internazionale hanno dovuto affittare due palazzi distinti per far lavorare in uno gli uomini e nell’altro le donne. Va ricordato che il primo aspetto che le organizzazioni devono garantire è la sicurezza di chi ci lavora: c’è chi ha dovuto ripiegare perché il “costo” di rimanere era insostenibile.

Se la condizione delle donne è molto peggiorata, con la perdita dell’accesso all’istruzione e al lavoro, più in generale come sta vivendo la popolazione afghana la repressione imposta dal regime?

L’Afghanistan ha una popolazione abbastanza giovane. Io ho 42 anni, e chi ha la mia età non ha mai vissuto un anno di pace in quel Paese, soggiogato prima dall’Unione Sovietica, poi dai Talebani, poi dagli Stati Uniti e poi ancora dal ritorno dei Talebani, tutti passaggi conditi da una violenza indicibile. Chi ha pagato le conseguenze sono state le persone normali, costrette a vivere nell’incertezza totale, con cui ti confronti da subito.

Ci si è sempre preoccupati poco delle ripercussioni della violenza creata: forse, se fosse stato potenziato il sistema sanitario e scolastico, non avremmo bambini che già a dieci anni imbracciano un’arma.

Lo scorso 7 ottobre il pogrom di Hamas nel Neghev israeliano ha oscurato la notizia del terremoto nell’Afghanistan nord occidentale, che ha causato più di 2 mila vittime.

Ero in Afghanistan quando c’è stato il terremoto, di cui a malapena è stata data la notizia. Il problema, per gli afghani, è di essere costantemente quelli che vengono dimenticati, nonostante la portata degli eventi. Ci si porta dietro il marchio perenne dell’equazione “afghano uguale terrorista”, un pregiudizio che rimane addosso e che pesa, soprattutto se lo stesso rigore non vale verso le politiche sbagliate di altri Stati.

OMS e Croce Rossa denunciano il calo dei fondi destinati alle crisi umanitarie nel 2023, e nel 2024 in particolare per il Corno d’Africa e l’Oriente. Pochi Paesi donatori con quote in calo a fronte dell’impennata delle spese militari. Come si rifletterà questo sull’intervento sanitario?

La riduzione dei fondi è un problema grave, si parla per l’Afghanistan del 20-25% in meno, ed è tanto. La guerra in Ucraina negli ultimi due anni ha drenato molte risorse, anche perché c’è stata una mobilitazione maggiore rispetto ai conflitti più recenti. Ora c’è Gaza e altre guerre cui far fronte, mentre l’Afghanistan, dopo il ritorno dei Talebani, sembra uscito dai riflettori internazionali.

Cosa ti piace dell’Afghanistan?

La storia, dato che conserva luoghi che affondano le loro origini in un passato di duemila anni, come Balkh, dove si trovano le rovine di Bactra, una delle città più antiche del mondo, dove sono nate le religioni.

E poi le persone, la loro idea di accoglienza e ospitalità. Non c’è un posto in cui non mi abbiano regalato qualcosa. La spensieratezza con cui vivono una situazione drammatica è ammirevole, come il loro sforzo per rimanere positivi, comunque e nonostante tutto. Sono persone a cui ho voluto e cui voglio bene. E’ ancora da confermare, ma può essere che in Afghanistan torni già il prossimo marzo.

Dove hai vissuto le esperienze più drammatiche?

In Yemen, posto dimenticato, dove è in corso la guerra dell’Arabia Saudita contro il movimento musulmano sciita Houthi. La popolazione vive nell’isolamento totale, non ha corrente, acqua, ospedali, e deve fare fronte a periodiche epidemie. Le righe spese sui giornali sono niente, per una situazione drammatica, che prosegue da una decina d’anni.

Che messaggio daresti a un giovane interessato a fare esperienza nella cooperazione internazionale, sia come medico o operatore sanitario, sia per gli aspetti gestionali e logistici?

Mi ritengo un privilegiato perché considero il mio lavoro un privilegio. Incontrare persone nuove, avere accesso a posti remoti, in cui da turista non potresti mai andare, vedere con i tuoi occhi cose che sono un po’ dimenticate e poco visibili. Inviterei un giovane che intende fare questa scelta a rimanere curioso, accogliere tanti punti di vista senza pregiudizi.

In certi posti ci devi vivere, dandoti tempo. Rimanere dei mesi ti aiuta a capire come vivono le persone, e a volte è tutto completamente diverso da quello che ti è stato raccontato.

Questo lavoro è più divertente di tanti altri e obbliga ad essere pronto a fare esperienze che non ti aspetti. Bisogna essere disponibili ad uscire dalla propria comfort zone, provare ad andare oltre certi pregiudizi. Il risultato è che badi meno a certe cose e apprezzi molto di più ciò che hai.

Paolo Guarneri (al centro) attorniato dal gruppo di lavoro in Afghanistan

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