Quando un paziente si siede davanti a me cerco di indovinane l’età. Ho sempre fatto il geriatra e per la maggior parte della mia vita professionale ho visitato persone più vecchie di me, mi è dunque naturale pensare che chi mi sta davanti abbia più anni di me.
Da un po’ di tempo e sempre più frequentemente mi capita di attribuire al paziente un’età superiore a quella certificata dall’anagrafe: talora il paziente è più giovane perfino di dieci anni dell’età che gli ho dato. Immagino che questo processo mentale valga anche per i pazienti: incontrandomi mi penseranno vecchio dottore, più vecchio di loro, anche se probabilmente così non è.
Attribuirsi un’età inferiore alla reale non è un cattivo segno. La letteratura scientifica dice che più ci si sente giovani, più si è oggettivamente predisposti alla salute: la convinzione mentale di essere giovani ha delle conseguenze positive su benessere e longevità, ci si ammala di meno e si sta anche meglio mentalmente, si corre meno il rischio di soffrire di depressione, di disturbi d’ansia o di demenza, in sintesi si presta più attenzione al proprio fisico proprio perché si vuole restare giovani.
In ospedale, per descrivere un paziente, si inizia spesso con l’età: “un uomo di 75 anni con dispnea, una donna di 80 anni con frattura di femore o con una colecistite acuta”. Conoscere l’età di un paziente consente di restringere l’attenzione verso le diagnosi più probabili e di immaginare il paziente prima di incontrarlo. Ma ha anche lo scopo di contestualizzare la sua clinica o di ipotizzarne l’eventuale drammaticità nel caso di prognosi sfavorevole. Si ritiene inaccettabile che un giovane padre di famiglia muoia per insufficienza respiratoria dopo un’infezione (ad es. per Covid), eventualità contro cui ci si predispone a lottare con tutti gli strumenti disponibili, ma con un paziente ultraottantenne disabile e con deterioramento cognitivo la situazione viene immaginata diversamente, meno intensivi sono gli interventi diagnostici e terapeutici da attivare; se un trentenne è in grado di affrontare una chemioterapia aggressiva o un intervento chirurgico rischioso o un trapianto d’organo, per un settantenne si considera che quegli stessi interventi potrebbero essere più nocivi che utili.
L’attribuire una prognosi a un paziente in base all’età e definire il grado proporzionato di intensità di cura da attivare, a seguito di un evento acuto, quando si accompagna alle considerazioni delle condizioni premorbose (vale a dire alla presunta spettanza di vita) è una modalità di buona pratica clinica propria del pensiero medico e una procedura strutturale consolidata della geriatria.
La durata della vita umana ha un arco naturale che nel nostro paese oggi termina abitualmente tra l’ottavo e il nono decennio; quarant’anni fa, quando ho iniziato la professione, era nettamente inferiore. Nel corso di questi anni ho cambiato significativamente modo di pensare il “significato clinico” dell’età. Grazie allo sviluppo tecnologico e organizzativo della medicina e della sanità, e alle migliori condizioni di salute raggiunte in età avanzata, le persone possono oggi sopravvivere facilmente a diagnosi mediche che avrebbero significato una morte prematura negli anni passati (nel 1980, ad esempio, i pazienti ultrasettantenni con neoplasie del colon erano considerati terminali e non venivano operati, e agli ultrasessantacinquenni con infarto era interdetta l’Unità di Cura Coronarica).
L’avvento della chirurgia mininvasiva e dei farmaci immunoterapici in oncologia ha spostato sempre più in avanti i limiti di età oltre ai quali non è più indicato l’accesso alla cura attiva.
Il campo della “medicina anti-invecchiamento” sta guadagnando credibilità con dati scientifici che indicano la possibilità concreta di estendere non solo la durata della vita, ma anche la “durata della salute” – ossia la quantità di tempo che le persone trascorrono in salute e attive, con una buona qualità della vita (il concetto di società longeva si sta sostituendo a quello di invecchiamento della società). Modalità di interventi di prevenzione attiva (principalmente del “disuso”) in età adulta sono disponibili in rete e sono sempre più diffusamente praticate (stili di vita, palestre, nutrizionisti).
Gli studi sull’efficacia della restrizione dietetica o del digiuno intermittente nel prevenire le malattie metaboliche e cardiovascolari e nell’allungare la durata della sopravvivenza sono sempre più convincenti (è assodato che, purché i bisogni nutrizionali essenziali siano soddisfatti, limitare l’apporto calorico aumenta la durata della vita di molti animali da laboratorio; primati che assumono due terzi delle calorie rispetto a chi mangia ad libitum hanno aspetti estetici, ed es. il pelo più folto, la postura corretta e non vecchieggiante, una spettanza di vita di un terzo superiore rispetto a chi ha una dieta libera).
Osservo del resto che miei compagni di liceo da quando sono in pensione dedicano buona parte della loro giornata liberata da obblighi di lavoro all’attività fisica ottenendo con esercizi specifici corpi e forma fisica da fare invidia a cinquantenni sedentari. Alcuni purtroppo interpretano liberamente e pericolosamente studi non conclusivi su come rallentare anche farmacologicamente la velocità delle lancette dell’orologio, con il discutibile supporto in alcuni casi di qualche medico accondiscendente.
Non si può negare la morte né rifiutare la realtà dell’invecchiamento, ugualmente non si può non essere affascinati dalle nuove ipotesi della medicina della longevità: e se l’arco di vita atteso non fosse quello che abitualmente si pensa? Dopo tutto non è forse vero che c’è stato un progressivo e ininterrotto aumento della spettanza di vita dall’inizio del secolo scorso a oggi (se si escludono le tragiche pause delle guerre e del Covid)?
Qualche ricercatore ha azzardato l’ipotesi che la vecchiaia debba essere considerata malattia, che esistano già evidenze che indicano la possibilità di poterla curare e che le malattie non trasmissibili – cancro, malattie cardiache, demenza – siano i sintomi dell’invecchiamento, che la prima persona che vivrà fino a 150 anni è già nata.
A mio avviso si tratta di un sogno alimentato dalla negazione e dalla paura della morte e dall’illusione del controllo completo sulla vita. È vero invece che già oggi le persone più ricche vivono in salute (cioè senza disabilità) in media quasi 10 anni in più rispetto a chi è più povero. Man mano che i dati alla base della scienza anti-invecchiamento diventeranno solidi e utilizzabili, è probabile che la disponibilità di terapie anti-aging renda questa differenza ancora più ampia.
In ospedale si è da tempo testimoni delle disparità di spettanza di vita. Recentemente abbiamo accolto in Geriatria un paziente di 60 anni, fumatore e bevitore, che, caduto nella vasca da bagno, lì è rimasto quasi due giorni prima che qualcuno se ne accorgesse e chiedesse soccorso. Fuori dalla sua camera d’ospedale io e la caposala, entrambi convinti di essere lontani dalla vecchiaia, abbiamo fatto qualche considerazione sull’età del paziente, quasi coetaneo di lei e quasi 10 anni più giovane di me, commentando il fatto che la collega neospecialista, trentenne, del Pronto Soccorso aveva telefonato dicendo che ci mandava “un vecchio di 60 anni”.
Effettivamente il paziente che ci siamo trovati di fronte ha un corpo logorato dalle malattie da decenni di stress cronico, da fattori personali e sociali. Se si potesse misurare l’età fisiologica piuttosto che cronologica di quel paziente, cosa si troverebbe? Debolezza, impotenza funzionale, diminuzione della fisiologica capacità di guarigione (resilienza). Queste informazioni sono molto più significative dell’età cronologica quando si tratta di prendere decisioni su quali interventi un paziente può sopportare. Ma questa modalità di valutazione dell’età, oltre a non essere diffusa, non ha riferimenti precisi (gold standard).
In prima linea nella scienza della longevità ci sono aziende che offrono una risposta troppo semplice (semplicistica secondo me) sulla stima dell’età: si invia qualche provetta di sangue (all’estero, naturalmente!) e si riceve un report che valuta l’età genetica, basata sulla rilevazione delle impurità del DNA e dei suoi prodotti legati all’invecchiamento. Forse questo valore è significativo, ma non è certamente chiaro se avere un’età genetica più giovane di quella cronologica conferisca la possibilità di una vita più lunga o migliore. Potrebbe, ma non è certo. E poi, che senso ha inviare il sangue: vale la pena di ricevere quelle informazioni, per farne cosa? Forse ne deriverebbero inutili preoccupazioni ovvero false rassicurazioni.
Mentre vedo i pazienti e faccio queste considerazioni sono consapevole che anche se possiamo rallentare l’orologio, non ci sarà mai abbastanza tempo. Questo corre.
Due anni fa, a New York per un meeting, solo, sveglio di notte per il jet lag mi sono ritrovato in preda al panico per un nevo nero sul dorso, non poteva che essere un melanoma! Non era una paura non plausibile, le storie mediche iniziano sempre in questo modo. Succedesse oggi potrei immaginare la presentazione del paziente: “uomo di 68 anni, ha un’anamnesi remota non significativa e diagnosi di melanoma metastatico”.
Tornato a Brescia sono corso dal dermatologo, che con una rapida occhiata al dorso mi ha detto di non preoccuparmi, sono “macchie dell’età”: “Ai tuoi 66 anni è naturale”.