Se Joe Biden, il presidente degli Stati Uniti che ha compiuto 80 anni lo scorso novembre, dovesse essere rieletto nel 2024, ne avrebbe 86 alla fine del secondo mandato. Sarebbe un record: Ronald Reagan, lasciò lo studio ovale a 77 anni, Franklin Delano Roosevelt morì nel corso del suo quarto mandato e aveva 63 anni. Ciò che oggi preoccupa molti elettori democratici è proprio l’età di Biden, più ancora delle sue politiche, e questo sta determinando una mancanza di entusiasmo, soprattutto tra le nuove generazioni.
La caduta del presidente Biden sul palco durante la cerimonia di laurea dell’Air Force Academy ha sollevato questioni di forma fisica. D’altronde anche io, geriatra e sostenitore dell’anti-ageismo, ho guardato con interesse ambivalente, clinico e umano, gli ultimi mesi di vita di Silvio Berlusconi. La parte di me geriatra prendeva atto delle legittime dichiarazioni politiche ancora oggettivamente in grado di influenzare l’elettorato; come cittadino avrei voluto si ritirasse e magari ricevesse cure adeguate alla sua età, geriatriche, piuttosto che rianimatorie o ematologiche.
In politica, come in ogni altro campo professionale e nella vita, è fin troppo facile liquidare gli anziani, soprattutto quando sono fragili o disabili.
Papa Francesco, il capo della Chiesa, ha 86 anni.
In Italia il presidente Mattarella ha 81 anni, in Senato ci sono 34 ultrasettantenni (Mario Monti ha 80 anni, Umberto Bossi 82, Paola Binetti 80, Luigi Zanda 80). I Presidenti di Banca sono prevalentemente ultrasettantenni (il presidente di Unicredit, Cesare Bisoni, ha 79 anni, il presidente di Banca Intesa-San Paolo, Gian Maria Gros-Pietro, ha 80 anni), così come molti uomini dell’industria (Michele Ferrero e Leonardo del Vecchio hanno condotto le rispettive aziende oltre gli 85 anni; Ettore Lonati ne ha 85) e della finanza (Carlo de Benedetti ha 88 anni, Francesco Caltagirone ne ha 80).
Silvio Garattini, che ha 94 anni, ha recentemente tenuto una straordinaria lectio magistrale nella nostra città.
Ognuno di questi svolge ruoli di responsabilità massima, a loro conferita non certo per la sola saggezza, qualità tradizionalmente associata alla longevità.
Molti sono gli attori vecchi che tuttora girano film d’azione: Harrison Ford ha 80 anni (e sta incassando ovunque con “Indiana Jones e il quadrante del destino”), Arnold Schwarzenegger ne ha 75, Denzel Washington 68 e Sylvester Stallone 76.
Lo stesso vale per i musicisti: Bob Dylan, 82 anni, ha appena pubblicato un disco straordinario, Mick Jagger, ottant’anni a luglio, ancora saltella sul palco.
Se un attore o un cantante a ottant’anni può rubare un cavallo o ballare sul palco senza maglietta, perché un politico non potrebbe gestire la Casa Bianca o il Quirinale alla stessa età? Perché un sacerdote si deve ritirare a 75 anni e perché lo deve fare un vescovo? Perché un medico che desidera continuare a lavorare dopo i 70 anni dovrebbe smettere di farlo?
L’età è solo un numero, si potrebbe dire, e, nelle migliori condizioni, porta il beneficio di competenze maturate nel tempo. Certo, l’età conta. Con ogni decennio, le nostre possibilità di malattia, di nuova disabilità e di morte aumentano. Un sindaco di 60 anni potrebbe morire, ma le probabilità sono più alte per un 80enne. Allo stesso modo, un presidente di 60 anni può cadere, ma è meno probabile che subisca un infortunio che gli modifica la traiettoria di salute rispetto a un 80enne.
D’altra parte, quando si limita la possibilità di lavoro basandosi solo sull’età, si rischia una perdita prematura di competenza e opportunità, per gli individui e per la società. Si amplifica inoltre quello che è diventato un dilemma determinante del nostro tempo: esigere contemporaneamente che i lavoratori più anziani vadano in pensione e lamentarsi dell’onere economico imposto alla società dagli anziani disoccupati.
Si dice che una soluzione potrebbe essere quella di sviluppare linee guida basate sull’evidenza da utilizzare per creare standard occupazionali in tutti i settori; l’ottimizzazione del lavoro degli ultrasessantenni, terrebbe conto delle diversità di salute proprie di questa fascia di età e dovrebbe fondarsi su dati epidemiologici, economici, medici e sulle preferenze personali.
Per fare in modo che ciò accada si deve chiarire quando l’età è importante: gli esseri umani stanno maturando sempre più tardi e vivono sempre più a lungo; a che età una persona è troppo giovane o troppo vecchia per bere alcolici, per andare in guerra, per guidare un’auto, per votare o ricoprire cariche politiche? Si deve allo stesso modo definire chi debba essere il redattore delle linee guida posto che l’argomento è evidentemente molto esposto a pregiudizi e valutazioni arbitrarie: il lavoro di un medico ottantenne fragile che con determinazione continua a svolgere l’assistenza ai pazienti è generalmente considerato incomprensibile, ma atto di eroismo quello di un cinquantenne con un cancro terminale che fa la medesima cosa.
È inoltre necessario tenere conto di altri aspetti rispetto alla mera età anagrafica. Ad esempio, come confrontiamo un giovane politico abile e vitale, ma incline alla bugia, con uno più anziano moralmente integerrimo, ma disabile? Oppure un vecchio manager che cade frequentemente senza mai farsi male rispetto a uno che è caduto una volta e impiega mesi a riprendersi? Il problema specifico delle cadute rimanda peraltro a un altro fattore importante: la tendenza sociale verso l'”adultismo”. Si sa che le persone anziane cadono e che non si fa a sufficienza per limitare le loro cadute e le conseguenti lesioni. Qualche anno fa un mio paziente, un non più giovane senatore bresciano, ma tuttora capace di efficacissimi interventi in parlamento, era inciampato in un dislivello della pavimentazione di piazza Vittoria, se ne scrisse sul giornale locale. Moltissime altre persone erano già cadute inciampando in quel gradino. La caduta di quel vecchio, dei vecchi, era stata imputata all’età, quelle dei giovani e dei bambini alla barriera architettonica (successivamente eliminata).
Sta nelle cose che a un certo momento tutti smetteremo di lavorare e, salvo morte improvvisa, tutti svilupperemo malattie e disabilità prima di morire. Poiché è praticamente impossibile prevedere quando ciò accadrà e persino se una particolare malattia o infortunio giustifichi il pensionamento, sono necessarie linee guida per valutare la competenza. Ma oggi tutto ciò che sappiamo per certo è che l’assenza di tali riferimenti produce effetti negativi: la letteratura scientifica descrive in modo preciso sia le conseguenze negative di quando le persone continuano a lavorare nonostante gli evidenti limiti psicofisici sia gli effetti negativi del pensionamento arbitrario sui lavoratori altamente qualificati.
Viviamo il tempo che permette di raccogliere i frutti della nuova longevità della razza umana. Per questo privilegio abbiamo la responsabilità di cambiare i luoghi comuni sull’invecchiamento e adattare le norme, le strutture e le politiche della società per ottimizzare il lavoro e il benessere nel corso della vita. Nel frattempo, vale la pena ricordare uno dei detti preferiti nella comunità della geriatria: “quando hai visto un ottantenne, hai visto un ottantenne”.