Sacerdote, 94 enne; è stato trasferito da un reparto chirurgico per le complicanze di una procedura che mirava a ottenere uno stato di salute perfetto.
Vive con un vecchio confratello ammalato, con la protezione di un’anziana nipote, che pure non gode di buona salute.
Nonostante le numerose malattie e interventi subiti, è stato completamente autosufficiente fino al momento dell’ospedalizzazione; ora, dopo l’operazione, non lo è più, né probabilmente più lo sarà.
Ogni volta che lo visito, e il tempo me lo permette, lo faccio parlare, lo fa volentieri; nei frequenti colloqui mi colpisce sempre la luce dei suoi occhi e la velocità dell’eloquio che non tradiscono la sua vivacità interiore. È orgoglioso della sua vocazione, dei suoi studi, dell’insegnamento, dell’impegno salesiano. Racconta che nel 1955 con altri 18 padri e 4 suore ha fondato il Centro di Addestramento Professionale nell’istituto di Rieducazione Beccaria di Milano che allora ospitava 277 ragazzi dagli 11 ai 21 anni, a quel tempo maggiore età. “Prima del nostro arrivo il tasso di successo dell’istituto di pena – vale a dire la percentuale di giovani che dopo la reclusione smetteva di delinquere – era del 30%, dopo del 70%; “il sistema educativo dei salesiani si fonda sul trinomio ragione, religione e amorevolezza. Prima la ragione!”.
Cerco di capire il perché il chirurgo gli abbia proposto un intervento che a 94 anni confina col futile, perché si sia spinto così in là non pensando alle possibili conseguenze. Effettivamente mentre parla il paziente non dà l’idea, anche nelle condizioni attuali, di ritenere che la sua salute sia fragile, di uno davanti al quale ci si deve accontentare o quanto meno essere prudenti. Che non sia stata questa combinazione, l’acritica convinzione di essere immortale che incontra l’idea trionfale della scienza che tutto può, a provocare quell’atto chirurgico incauto?
Con ragionevole pessimismo penso che anche in medicina la migliore delle ipotesi mai si avvera, soprattutto nei novantenni.