Un unico studio di 12 metri quadrati. Tre scrivanie una accanto all’altra. Sei medici affiatati. Un comune sentire che ha ispirato il loro impegno lungo l’intera vita professionale. Sono questi gli ingredienti di un’avventura forse unica, quella della 2^ Medicina degli Spedali Civili di Brescia iniziata a metà degli anni Ottanta e proseguita per oltre vent’anni, di cui Bruno Cerudelli è stato uno dei protagonisti. Come racconta in questa intervista, provando a tracciare un raffronto con il tempo di oggi, più incerto e meno fiducioso.
Dottor Cerudelli, come è iniziato il tuo percorso in corsia?
Ho iniziato a frequentare la 2^ Medicina come laureando, lì ho incontrato maestri come il primario prof. Gianni Giustina, che mi ha trasmesso la passione per l’endocrinologia e ha dato avvio a Brescia a una scuola ad indirizzo endocrino-metabolico che fino ad allora mancava, e il dott. Enrico Radaeli, un punto di riferimento per la medicina interna e un modello cui ispirarsi. In questo reparto non ho solo lavorato, ho “vissuto” per 30 anni, avendo l’opportunità di stringere profondi legami di amicizia oltre che di lavoro con molti colleghi, in particolare con Paolo Balestrieri, Ottavio Di Stefano, Andrea Salvi, Tiziano Scalvini, Umberto Valentini.
Una stagione che suona unica e irripetibile: cosa la caratterizzava?
In quell’unico studio, condiviso per anni, non si stava stretti. E’ stato uno spazio privilegiato di discussione, di formazione, di crescita professionale e umana che è difficile da descrivere. Ciò che ha caratterizzato in modo straordinariamente particolare il gruppo è stato il comune “sentire” l’essere medico in termini di etica professionale, senso del dovere, impegno personale, disponibilità alla collaborazione, rispetto e correttezza nei rapporti con tutti i colleghi. Questo si è riverberato positivamente sull’”atmosfera” di tutto il reparto, che in quegli anni non è mai stata significativamente conflittuale, né tantomeno turbata da fazioni avverse come a volte può capitare nella realtà ospedaliera e universitaria.

Da lì ciascuno di voi ha poi spiccato il volo, andando a dirigere altre unità operative di Medicina.
Tengo a sottolineare che tale traguardo non è stato raggiunto perché sostenuti da potente patrocinio, piuttosto per “optimo iure”, a pieno diritto. Dal 2010 io sono stato chiamato a dirigere la Medicina del presidio ospedaliero di Gardone Val Trompia: anche in questo caso ho avuto fortuna, trovando giovani collaboratori che hanno formato un’équipe valida professionalmente e molto affiatata, cosa che mi ha facilitato, consentendomi di concentrare le energie sull’attività clinica.
Poi nel 2020 vai in pensione, ma dopo un solo mese, complice la pandemia, arriva una nuova “chiamata”…
Eravamo agli inizi della pandemia, c’era un assoluto bisogno di medici, e alla telefonata di “chiamata alle armi” del presidente dell’Ordine non potevo che dare la mia disponibilità. Sono stato subito “arruolato” e sono tornato al lavoro in veste operativa, quella che ho sempre preferito. Ho prestato servizio in diversi reparti del Civile e di Gardone Val Trompia riconvertiti per il Covid. L’impatto della pandemia è stato devastante, mi è sembrato davvero di essere al fronte, abbiamo vissuto una situazione di impotenza e disperazione, ma pur nelle circostanze estreme in cui ci siamo trovati, siamo riusciti a trarre un’esperienza positiva dall’efficace collaborazione realizzata fra diverse competenze, perché tutti ci sentivamo “sul campo”.
A distanza di quasi tre anni la celebrazione dei “medici eroi” è caduta nell’oblio, e in ospedale sono molto diffuse tra i sanitari situazioni di disaffezione e burn out.
Sicuramente ai miei esordi l’organizzazione del lavoro e le opportunità erano più semplici, c’erano meno condizionamenti, anche sotto il profilo del budget. Anche l’aumento del carico burocratico ha inciso pesantemente perché ha rallentato l’attività, soprattutto senza un adeguato supporto di strumenti tecnici. Credo sia fondamentale un’equa distribuzione del carico di lavoro, per evitare confronti e conflitti: tutti devono remare nella stessa direzione. Del resto la nostra esperienza in 2^ Medicina ci ha dimostrato come il senso del gruppo sia fondamentale per assicurare la vivibilità sul luogo di lavoro: il gruppo ti sostiene, assicura relazioni positive e costruttive, ti sprona a migliorare. Credo che questo sia un insegnamento da non disperdere.
Come vedi il futuro dei giovani medici?
I giovani non mi sembrano demotivati, anzi, oltre ad essere professionisti di qualità, si impegnano tanto. Anche durante il periodo Covid ho avuto l’opportunità di lavorare con gli specializzandi, che con il loro fervore sono il “sale”: sono desiderosi di apprendere, hanno voglia di fare e fare bene. A loro dico: non fatevi scoraggiare dalle lamentele degli strutturati, conservate l’entusiasmo, focalizzatevi sui mentori che possono tracciare il cammino, valorizzate la curiosità e il nucleo positivo della professione: se si perde quello, si perde tutto.
E il ruolo dell’internista, quale è destinato a diventare in una medicina sempre più tecnologica?
La medicina sta conoscendo sviluppi così rapidi che o ti interessi di un campo specifico o fai fatica a stare dietro alle innovazioni quasi quotidiane. Da questa angolazione fare l’internista è sempre più difficile, perché se prima avevi le competenze per seguire anche i casi specialistici, ora il panorama è molto più complesso. Ma c’è un campo, che ritengo fondamentale, in cui l’internista farà sempre la differenza: è la gestione del paziente che presenta più problemi clinici, e che va osservato con uno sguardo d’insieme, facendo sintesi delle specificità del singolo malato. In un contesto in cui ogni specialità sembra proiettata sul proprio “pezzettino”, noi internisti veniamo fuori grazie a questa visione globale.
Tornare alla visione globale del paziente e dare la giusta valenza ai diversi aspetti della spina dorsale del nostro SSN: PREVENZIONE, DIAGNOSI, TERAPIA, RIABILITAZIONE. Grazie Cerudelli.