Ho da poco compiuto 70 anni e mi ritrovo spesso a pensare al mio futuro, più spesso di quanto non facessi da giovane o giovane adulto. Ebbene, preso atto che inevitabilmente parliamo di un futuro sempre più prossimo e meno lontano, pur riconoscendo ed apprezzando i vantaggi offerti dall’età e dal pensionamento (poter poltrire qualche mezz’ora in più nel letto al mattino, godere di momenti d’ozio nullafacente e tempi non contingentati da dedicare alla lettura, alla attività fisica, all’andare a spasso…) ammetto che non di rado i miei pensieri assumono un tono meno ottimista e positivo.
E non mi riferisco tanto ai piccoli acciacchi ed al venir meno delle performances fisiche, da mettere in conto, quanto al timore di quella che da molti è definita ormai come un’epidemia collegata all’invecchiamento della popolazione, vale a dire il decadimento cognitivo e la demenza.
Nell’ambito della mia attività professionale di medico di medicina generale ho potuto toccare con mano nel corso degli anni l’incremento costante dell’incidenza di queste problematiche, al punto che ormai poche sono le persone che possono dire di non aver fatto esperienza o comunque di non essere venute a conoscenza delle difficoltà di gestione dei soggetti affetti da decadimento cognitivo.
E confesso che tra le situazioni più difficili e stressanti con cui mi sono confrontato annovero sicuramente il fatto di aver dovuto assistere allo spegnersi della ragione in persone che avevo conosciuto sane di mente ed attive e, accanto a questo, all’ansia ed alla tristezza dei familiari e caregiver. Ansia e tristezza tanto più accentuate quanto più il soggetto in questione assumeva atteggiamenti “ostativi”, poco collaboranti: in altre parole quando era arrabbiato, irritato, nervoso, alterato, condizioni che ho riscontrato in un elevato numero di soggetti con decadimento cognitivo.
Dato per scontato che tali atteggiamenti sono spesso giustificati dal fatto che il paziente demente non riesce ad esprimere le sue esigenze o comunque non viene capito, per cui tali esigenze non soddisfatte generano malcontento e agitazione fino all’aggressività, azzardo un’altra considerazione, un poco fantasiosa, sicuramente non scientifica: i nostri familiari, genitori o nonni, ed i nostri pazienti con demenza sono tutti soggetti vissuti in un’altra epoca, in altre case (più spaziose), in altre famiglie (più numerose) in cui i loro genitori ed i loro nonni, il più delle volte, sia che fossero sani piuttosto che con decadimento cognitivo, restavano in famiglia, accuditi da familiari.
La situazione oggi è decisamente cambiata: le case più piccole, le famiglie meno numerose, in cui il padre e la madre spesso entrambi lavorano, rendono l’assistenza agli anziani problematica all’interno della famiglia. Ed ecco le badanti, i centri diurni, le RSA.
Inevitabile allora che in quel groviglio di emozioni, sentimenti, ragionamenti, residui di ricordi e memorie che è il cervello dei pazienti con demenza si crei un nebuloso confronto tra la situazione dei loro genitori e nonni e quella che essi stessi sono costretti a vivere in prima persona, con la delusione ed il malcontento che ne conseguono.
Ed in base allo stesso meccanismo esperienziale voglio sperare (ma forse mi illudo) che noi, attuali familiari e caregiver, che come tali viviamo lo stress, l’ansia ed i sensi di colpa di assistere familiari e pazienti problematici, scorbutici, aggressivi, una volta raggiunta una certa età e persa la ragione (è un’ipotesi da non escludere a priori), inconsapevolmente memori delle problematiche ansiogene vissute quando eravamo dall’altra parte, saremo più remissivi ed accondiscendenti nei confronti dei nostri caregiver ed assistenti, facilitando loro il compito.
E’ una speranza? Un’illusione? Non so. Ai posteri l’ardua sentenza.