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Notiziario dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Brescia – aut. Tribunale di Brescia n. 195/1962

Ero un medico di medicina generale: perché ho lasciato la professione

Questa intervista non è stata indolore. Perchè ha fatto riemergere in modo prepotente «quella parte di sofferenza per l’abbandono della medicina generale che era rimasta sopita». Essersi dovuta togliere il camice brucia ancora, a distanza di anni. «Per me è stata una sconfitta, dopo anni dedicati allo studio per migliorare continuamente la mia preparazione per assistere al meglio i miei pazienti e molti sacrifici, ma dovevo lasciare, altrimenti sarei scoppiata», rivela la dottoressa Maria Daniela Mazzani che, nel 2017 dopo vent’anni come medico di medicina generale a Brescia, ha scelto di ritirarsi dall’attività. Una decisione soppesata per mesi con un costo emotivo molto alto. Ha deciso di rendere nota la sua esperienza di disagio medico. «Non ho paura di mostrare il mio lato debole, le mie incertezze – dice – Credo che la sensibilità, soprattutto per un medico, sia un punto di forza, non di debolezza».

Partiamo dall’inizio: cosa l’ha spinta a diventare medico di medicina generale?

Durante gli studi ero molto interessata alla ricerca clinica e, dopo un tentativo infruttuoso di entrare in specialità (Ginecologia ed Ostetricia), ho optato per la formazione di medicina generale: dopo i sei mesi di tirocinio presso l’ambulatorio del Tutor di Medicina Generale mi si è aperto un mondo. Da qui la decisione convinta di fare il medico di medicina generale, una professione che ho sentito mia per le molte opportunità che mi offriva: mettere la persona al centro, poter mantenere una continuità nella relazione di cura e di aiuto, conoscere a fondo il paziente e la sua famiglia, conquistare la sua fiducia, sapendo che chi ti sta di fronte ti misura, per capire se gli interessi e se gli dedichi attenzione. Tutto questo per me è sempre stato una fonte di arricchimento personale. Avrei avuto anche la possibilità di fare ricerca sul territorio.

Poi però, dopo vent’anni di professione, qualcosa si è spezzato. L’elemento scatenante è stata l’impossibilità di conciliare il lavoro con le esigenze famigliari.

Per me la rinuncia alla professione è stato un processo lungo e travagliato, originato da diversi fattori. A farmi fare il passo finale, nel 2017, è stato il peggioramento delle condizioni di mio padre e la necessità di prendermi cura di lui. Avevo 1200 assistiti, moltissimi quelli dal “peso clinico” rilevante. Ogni giorno seguivo 60 – 80 pazienti (punte di 100). Ma i numeri non rendono fino in fondo l’idea della complessità e numerosità delle azioni svolte all’interno del singolo contatto. Non avevo orari e spesso stavo in ambulatorio fino a tardi. Extra orario dedicavo tempo all’aggiornamento delle cartelle per avere più “tempo di qualità” da dedicare alla persona: per me visitare il paziente, parlare con lui, informarlo ed educarlo ha sempre rappresentato il cuore del mio impegno. Con un’inevitabile riduzione del tempo di vita da dedicare alla mia famiglia. Mio padre non riuscivo a vederlo se non nei fine settimana o nei pochi momenti liberi. Questo disagio di non potergli stare vicino si è acuito quando la sua situazione clinica è peggiorata, e per poterlo assistere al meglio ho dovuto lasciare.

In questa sua scelta ha dovuto misurarsi anche con i conti economici che non tornavano…

Ho sempre lavorato da sola, non per mia scelta ma per necessità. La medicina di gruppo (realtà nei paesi dell’hinterland ma non in Brescia città) è stato un sogno che, nonostante i miei sforzi, non si è avverato. Questo però ha significato dover far fronte a spese di gestione molto gravose per arrivare a un reddito che – come mi diceva il mio commercialista – non risultava “congruo”, perché fuori dai parametri degli studi di settore: facevo troppe ore di lavoro rispetto ai compensi percepiti. Impossibile, perché economicamente non sostenibile, assumere segretaria o infermiera per ridurre il carico di lavoro.

Che tipo di pazienti frequentavano il suo studio?

Esercitavo in un quartiere sorto negli anni ’60, quindi seguivo in maggioranza pazienti anziani con comorbilità e diverso grado di fragilità clinica, familiari di pazienti molto fragili non deambulabili, giovani, adulti e immigrati in condizioni di fragilità o disagio socio-economica: un case mix molto vario, la cui complessità è andata crescendo con il progressivo invecchiamento dei pazienti e l’aumento degli immigrati residenti in zona.

Un tempo clinico sempre più eroso dalla burocrazia e da interminabili procedure sui sistemi informatici.

Soprattutto se questi ultimi funzionano male: ore e ore, a volte le intere mattinate, perse a causa dei malfunzionamenti della piattaforma SISS, il computer bloccato, le ricette compilate a mano, il “tempo vita” perso e i pesanti disagi per i pazienti. So che questi problemi persistono tuttora e che la burocrazia è aumentata tantissimo con la pandemia Covid. Ritengo che dedicare ore di lavoro per fare atti non medici rimanga uno dei problemi più avvertiti da chi sceglie la medicina generale.

Quali i sentimenti prevalenti, quando ha lasciato?

Stanchezza e senso di impotenza. La stanchezza di vedere che, nonostante il peggioramento delle condizioni di lavoro, il carico del medico non viene considerato, come se la mia giornata fosse “infinita”. Perché le richieste quotidiane erano tante e dare le risposte più appropriate richiede tempo. Devi anche aggiornarti, studiare, leggere comunicazioni, circolari ecc. Ma “il Medico deve…”. E’ singolare che la tutela della salute, diritto fondamentale della persona, pare venga riconosciuta a tutti i lavoratori tranne che al medico. Ricordo quante volte, pur stando malissimo, sono andata a lavorare perché non trovavo un sostituto e non potevo chiudere l’ambulatorio (come durante la pandemia Covid). La visione dominante è che “fare il medico sia una missione” e che egli si debba “immolare”. Penso invece che diritto di ogni paziente sia avere un medico che stia bene e sia posto nelle condizioni di assisterlo al meglio.

E il senso di impotenza?

L’impotenza derivava dal non sentirsi ascoltati come medici di medicina generale. Dalla mancanza di prospettiva che le cose potessero migliorare in futuro. Dall’impossibilità di condividere un percorso comune con le istituzioni che governano il sistema. La sensazione era che, davanti a un investimento di risorse insufficienti, i medici di medicina generale fossero considerati unicamente come fonte di spesa. Contava il raggiungere una percentuale di farmaci “generici” prescritti e di ricette dematerializzate, il confronto con la media di spesa o essere in regola con i Piani Terapeutici. Non si faceva riferimento all’esito del processo di cura. Poi nacque il Governo Clinico, ora abbandonato. Impotenza perché governare i fenomeni di “consumismo sanitario” e di “disease mongering” diventava sempre più difficile e le revoche fioccavano. L’approccio “Slow Medicine” era scarsamente gradito al paziente. 

La riforma della sanità territoriale in Lombardia, con l’introduzione delle Case della comunità, potrà migliorare la situazione?

Penso sia un po’ tardi, perché è da trent’anni che non si investe sulla medicina generale. Soprattutto in Lombardia la sanità territoriale è stata trascurata. Le Case della comunità vanno riempite di personale – oggi, ma in futuro con la gobba pensionistica ancora di più, carente – se non si vogliono costruire delle cattedrali del deserto. Numerose sono le criticità per i medici di famiglia: inquadramento, orario di lavoro nelle Case della Comunità, collegamento in rete e aperture ambulatori sulle 12 ore per 6 giorni a settimana. La popolazione fragile per età o condizioni socio-economiche richiede piuttosto strutture vicine nel segno della medicina di prossimità e dell’uguaglianza delle cure.

Il contratto nazionale di lavoro dei medici di medicina generale va rivisto?

Andrebbe rinnovato a scadenza e profondamente rivisto, a partire dalla quota capitaria che deve dipendere da un insieme di indicatori della complessità clinica e di valutazione dei costi di gestione. E’ necessaria inoltre una revisione del compenso economico, sempre più insufficiente. L’aggiunta di compiti, di incombenze e di doveri non retribuiti mal si concilia con l’attività libero professionale.

Una parte significativa delle borse per la formazione dei futuri medici di medicina generale in Lombardia non viene assegnata, secondo lei perché i giovani si stanno allontanando da questa professione?

Le nuove generazioni di medici danno la giusta importanza alla qualità di vita, e spesso il contatto con la medicina generale e i suoi problemi porta a un brusco avvicinamento alla realtà, che li spinge a scegliere altre strade. Il confronto fra due inchieste Fnomceo del 2009 e del 2022 evidenzia un peggioramento del disagio, con il 30% dei medici propensi alla pensione anticipata. A voler lasciare il lavoro sono il 25% dei giovani medici con età compresa tra i 25 e 34 anni e il 31% di quelli tra i 35 e i 44 anni”.

Ripensa spesso alla sua decisione?

Ci penso, e ogni tanto vado in crisi. Razionalmente è tutto più facile da accettare. Rimangono tutt’ora valide le ragioni più determinanti della scelta di rinunciare alla convenzione: dovere essere più presente ed assistere al meglio mio padre, la stanchezza e l’incombente burn-out con la paura e consapevolezza di non potere più assistere al meglio i miei pazienti, la valutazione economica. Emotivamente è più complicato. La relazione di aiuto è la parte del mio lavoro che mi mancherà sempre.

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Raffaele
19 Febbraio 2024 14:47

Concordo appieno con la ex collega di MMG, anche io faccio fatica a resistere, il ritorno economico è inesistente ed i pazienti troppo anziani e complessi o si rivede o si elimina la medicina di base.

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