Quando le vedo nella sala d’attesa, vecchia signora accompagnata da una donna più giovane, di solito figlia, immagino una delle mie visite più tipiche per progressivo difetto di memoria o sintomatologia depressiva. Non sbaglio.
La paziente, 77 anni, ha un disturbo cronico dell’umore, che riferisce essersi recentemente aggravato. L’accompagna la nuora (che le dà del lei). Vedova, vive in un appartamento adiacente a quello del figlio di un comune a trenta chilometri dalla città.
Appoggia una cartella sulla scrivania, che non avrei alcuna voglia aprire, e mi è facile ipotizzare di essere il decimo, o il quindicesimo, medico consultato negli ultimi anni.
Ascolto la storia, gravità e durata dei sintomi, indago sulla presenza di eventuali condizioni di svantaggio sociale, sulla vedovanza, le eventuali dinamiche familiari complesse; la presenza di malattie fisiche, il loro peso sulla disabilità, la comorbilità psichica, ecc, ecc.
Da subito so che dovrò decidere tra il prescrivere un’inutile nuova combinazione di farmaci, promettendo, sapendo di mentire, se non la guarigione almeno un netto miglioramento oppure confermare la terapia in atto tessendo le lodi dell’ultimo medico consultato, il medico di famiglia, e consigliando pazienza, ché il trattamento richiede tempo, ma certamente il miglioramento ci sarà. Scelgo la seconda opzione, perché lo studio del medico è poco distante dalla sua abitazione, più facilmente consultabile, maggiore la possibile protezione.
Scrivo il referto della visita e prima di consegnarglielo non riesco a trattenermi dal chiedere quale sia stato il motivo del suo improbabile nome: Plectrude. Era quello della prima moglie del papà, morta giovane, ne era perdutamente innamorato. Quando si è risposato ha voluto ricordarla dando quel nome alla prima figlia. Quanto avrà influito questo nome sullo stato psichico della paziente? Immagino inoltre come quel “delicato” gesto d’amore del padre sia stato digerito anche dalla mamma. Beffa e danno.