Quando mi vede, nel parcheggio davanti all’ospedale, mi viene incontro senza indugio, forse anche con un po’ di prepotenza. È una signora che conosco, titolare con la sorella di una camiceria del centro. È abbronzata, nonostante la stagione invernale – dirà di essere dovuta rientrare dalla vacanza in Kenya; la madre novantatreenne è caduta rovinosamente in casa e, pur non avendo subito fratture, non riesce più a reggersi in piedi, ad alzarsi dal letto, ad andare in bagno. Dopo una permanenza breve in chirurgia da ieri sera è ricoverata nel mio reparto, ha la febbre elevata ed è confusa. Già la scorsa estate per l’ennesima caduta si era fratturata il femore, e, poco dopo il rientro a casa avvenuto due mesi dopo l’intervento, aveva recuperato buona parte dell’autosufficienza tanto da licenziare la “badante”.
Io ancora nulla so della paziente, ma, dal racconto della figlia, immagino che la situazione sia molto grave, ancor più dopo aver chiesto che aspettative abbia e aver sentito un “che non soffra”.
Arrivo in studio, mi metto il camice e vado in corsia, nella stanza della paziente. La signora mi accoglie con sguardo sospettoso, mi presento, chiedo come sta e lei dice qualche sintomo, racconta a suo modo quello che è successo esprimendo ancor prima il desiderio di voler tornare a casa al più presto.
La visito; posso chiederle di provare ad alzarsi dal letto. Si sposta le lenzuola, molto lentamente e con fatica si siede sul bordo. Le metto le ciabatte ai piedi, le porgo le mani affinché possa attaccarsi; con fatica riesce a farlo, sorretta riesce anche a fare un paio di passi. L’aiuto a mettersi sulla sedia ed esco dalla stanza dove incontro la figlia e le dico i miei dubbi sulla sua prognosi. Non mi ha dato l’idea di una persona morente: “la sua mamma ci sotterra tutti”.
Stamattina, nel parcheggio, ho reincontrato la figlia. Ha cercato nuovamente di fermarmi, “la raggiungo dopo in corsia” le ho detto fermamente allungando il passo. Lei ha insistito, mi voleva parlare. Mi sono fermato. “La mia mamma è mancata stanotte, l’hanno trovata morta nel letto” “Ma come?” dico io. “Ha chiuso con la vita come voleva, nel sonno, senza soffrire. Ha vissuto bene”. Sto in silenzio qualche attimo, faccio le condoglianze, la saluto, pensoso e turbato mi avvio verso lo studio.
Perché quell’errore prognostico? Cosa l’ha condizionato? L’abbronzatura della figlia? o il suo “non fatela soffrire” (refrain che spesso si sente quando i familiari, non i pazienti, sono allo stremo)? Forse ho avuto il retropensiero che la figlia avesse già abbandonato la madre e sono stato in tal modo portato a fare una prognosi che contraddicesse le sue previsioni per punire la sua amoralità filiale?
Nonostante i tantissimi anni di consuetudine con il fine vita, non ho ancora imparato il modo in cui giunge la morte né accettato che spesso questa arriva e te lo fa sapere quando e come vuole lei.