“Parole d’ordine dei giovani medici”:
- Ridurre la burocrazia
- I ritmi di lavoro non devono andare a scapito della vita privata
- La società deve riconoscere la delicatezza del ruolo, il valore del lavoro medico
- Va ridotta la conflittualità con i pazienti ed i familiari
- Maggiore formazione pratica, di un tutoraggio più approfondito, per avere una preparazione ad affrontare la professione “sul campo”
- Ambienti professionali orientati alla crescita, alla collaborazione ed all’esempio virtuoso
- Ascolto da parte delle organizzazioni sanitarie
- Supporto per le attività non cliniche
- Maggiore tutela
Riprendo questi punti, che fanno parte della introduzione di Angelo Bianchetti alle interviste a giovani medici contenute nel numero 392 della rivista Brescia Medica, per sottolineare come le stesse tematiche e le stesse osservazioni compaiano nella intervista a Daniela Mazzani, medico di medicina generale che, nel mezzo del cammin della sua vita professionale, ha deciso di ritirarsi a vita privata.
Naturalmente ci sono sfumature diverse. Ad esempio, laddove i giovani medici lamentano ritmi di lavoro eccessivi, che compromettono la vita privata, probabilmente fanno riferimento alla vita familiare e ad aspetti edonistici (tempo libero, vacanze, hobbies) mentre per Daniela la motivazione che più di tutte ha determinato la sua scelta è stata sì quella familiare, ma legata al problema assistenziale del padre malato.
Perfettamente sovrapponibili sono invece le osservazioni sull’eccesso di burocrazia e sul mancato riconoscimento del valore del lavoro medico.
Un approfondimento merita il tema degli “Ambienti professionali orientati alla crescita, alla collaborazione ed all’esempio virtuoso”. Daniela confessa il suo desiderio di poter lavorare in una medicina di gruppo, condizione che probabilmente l’avrebbe aiutata in alcune fasi critiche, ma che purtroppo non ha potuto soddisfare. La stessa esigenza è stata manifestata dai giovani medici di medicina generale.
Mi permetto a questo proposito alcune considerazioni personali, partendo da lontano, e precisamente dalla tipologia di lavoro che il medico di medicina generale è chiamato a svolgere in questi nostri tempi: la gestione dei malati cronici occupa ormai gran parte della sua attività, ed è una gestione guidata dai PDTA, caratterizzata da ripetuti controlli per il follow up, controlli per l’aderenza terapeutica farmacologica ed a stili di vita adeguati, ripetizione di ricette.
C’è un rischio concreto di cimentarsi in una medicina routinaria e ripetitiva, con il prevalere di aspetti burocratico-amministrativi su quelli clinici, una medicina quindi ad alto rischio di burn out. In questo contesto acquista ancor più importanza la relazione con il paziente e la sua famiglia, il condividere il percorso e gli obiettivi, fornirgli gli strumenti ed i suggerimenti per risolvere al meglio i problemi legati alla sua patologia, personalizzando le indicazioni dei PDTA e delle linee guida, introducendo quindi una componente “creativa” che può essere d’aiuto al medico nel superare le insoddisfazioni della routine quotidiana. E non a caso sia i giovani medici nelle loro interviste sia Daniela valorizzano molto questo aspetto.
Restando nel campo motivazionale e tornando al tema degli “ambienti professionali che favoriscono la crescita”, sono convinto che le case di comunità, intese come centro di fattiva collaborazione multiprofessionale tra medici di medicina generale, infermieri, specialisti, operatori sociali ed amministrativi siano un’occasione per i medici di medicina generale organizzati nelle AFT per esplorare nuove modalità di lavoro, acquisendo conoscenze e capacità per operare in team, condividendo oneri ed onori nella gestione della sanità pubblica, anche se al momento attuale molte sono ancora le incognite e gli interrogativi riguardo il come e il quando queste case diverranno operative.