È uno di quei posti dove si cura la Gente. Si cura perché lui o lei sta male.
Il paziente indica lo zainetto con i due ordigni da lui stesso confezionati. Vuol fare saltare il campo da calcio dove, da ragazzo, non lo facevano giocare nella squadra.
Lei, la dottoressa del centro psicosociale pubblico di Orzinuovi, lo conosce e lo sa ascoltare.
Ha scelto di fare questo lavoro, di venire a contatto con chi tutti i giorni sperimenta il disagio del vivere.
Ma lì in quel posto aperto a chi sta male lo conoscono tutti. Non è mai stato aggressivo. Gli parla e lui consegna il suo zainetto e tutto finisce.
Paura per gli operatori e gli altri pazienti che scema rapidamente con l’intervento tempestivo della sicurezza.
Un episodio.
Lei, la psichiatra, non ha fatto altro che il suo lavoro, potrebbe essere il commento scontato e superficiale.
Viviamo un tempo di crisi del nostro Servizio Sanitario Nazionale resa drammaticamente evidente dalla pandemia. È in discussione l’esistenza stessa dei suoi valori istitutivi: il diritto fondamentale alla salute che, come tale, viene prima di tutti gli altri. Tutti noi, nel nostro particolare, lo diamo per scontato finché… finché non viene meno.
Siamo tutti coscienti della ristrettezza di risorse, con situazioni di drammatica carenza di professionisti che condizionano le stesse possibilità di nuove progettualità.
Il mondo del disagio psichico, insieme a tanti altri settori della sanità, vive da anni una realtà non più proporzionata alla richiesta di salute.
La dottoressa non ha pensato al suo carico di lavoro, alla sua retribuzione, al sacrificio spesso della vita famigliare e sociale. Ha semplicemente pensato a lui, e l’ha curato.
Quanto allora è monetizzabile, e quanto è possibile ridimensionare il diritto costituzionale alla salute?
Certo dobbiamo fare i conti, proprio i conti, ma il diritto alla cura è una priorità che riguarda tutti, nessuno escluso.
Ed anche noi dobbiamo guardarci dentro per le nostre inefficienze e inappropriatezze.
Per la salute di tutti noi è il momento delle scelte, certamente realistiche, ma che dovrebbero continuare a preservare il diritto di quel ragazzo, che non riusciva a giocare a calcio, a trovare qualcuno che a lui si avvicina, lo ascolta, lo capisce e se ne prende cura… solo perché sta male.
Noi comunità medica possiamo fare solo una cosa.
Ringraziare la dottoressa e gli altri operatori perché lo “spirito di servizio”, nonostante tutto, resiste.