Il motivo del ricovero è una caduta. Da qualche giorno aveva febbre, la sera precedente, intorno alle 20, si è accasciata a terra senza riportare alcun trauma e non è più stata in grado di rialzarsi; lì è rimasta fino al mattino successivo quando è riuscita a richiamare l’attenzione dei vicini che hanno allertato i soccorsi.
Ha 90 anni, vive sola, non ha parenti ed è nota ai Servizi Sociali. Non ha nulla di speciale che possa attirare la mia attenzione eppure per lei provo un’immediata simpatia.
Ha ancora febbre e dolori muscolari per essere rimasta a terra a lungo, ma ha ugualmente voglia di conversare, di tutto, anche di cose che non riguardano il suo ricovero. Dice di aver avuto un marito e, alla morte di questo, un compagno; non dà l’impressione di ricordarli con nostalgia. Non ha potuto avere figli. Ha però sempre goduto della compagnia di gatti e cani che ha molto amato. Quando le faccio i complimenti per la simpatia, si schermisce dicendo che è l’amore per gli animali che le ha insegnato ad amare gli uomini; dice che anch’io sono simpatico, che si vede che amo i pazienti e che certamente amo anche gli animali.
Quando esco dalla stanza penso a come il “carattere” possa condizionare l’atto clinico e che le persone con le quali si instaura una relazione di simpatia (empatia?) siano generalmente le meglio curate, se non in termini tecnici quantomeno in termini emotivo affettivi. Le meglio “curate” appunto. Non avrà problemi a ricevere quanto chiede, anche l’extra, è naturale, anzi sono certo non chiederà nulla perché le sarà dato prima che domandi.
Anche lei deve aver provato un sentimento analogo, non solo per il garbo familiare col quale si è rivolta a me nella conversazione, ma anche perché ha dato molto per scontato, come se io di lei immaginassi o sapessi tutto.
Nel corridoio incontro l’assistente sanitaria e chiedo come mai la paziente sia in carico ai Servizi Sociali: “non ha nessuno, ha sempre fatto la puttana” mi dice.
E tutto è chiaro, è l’idem sentire delle professioni d’aiuto.