Intervista a cura di Gianpaolo Balestrieri e Lisa Cesco
Arriva a passo spedito, dopo un pranzo insieme ai decani dell’Università di Brescia, con cui ogni tanto si ritrova per incrociare nuove traiettorie di vita. Per l’anno in corso ha già in agenda una serie di moderazioni nei principali convegni di Cardiologia nazionali, che lo porteranno lungo tutta la penisola, da Scilla a Napoli fino a Bormio.
Cesare Proto è un ragazzo di 89 anni (perché l’età è quella che ci si sente) che non ha smarrito l’entusiasmo per quello che fa. Nato a Tunisi da famiglia di origini amalfitane, approdato a Brescia mentre faceva la specialità per assolvere il servizio militare nell’Aeronautica di Ghedi, ha iniziato a frequentare l’ospedale Civile nei giorni liberi, presso la Divisione di 1^ Medicina diretta dal prof. Luigi Beltrametti, seguendo soprattutto il prof. Gianfranco Levi che sarebbe poi divenuto suo primario in IV Medicina a Gussago. Erano i tempi dei primi cateterismi cardiaci, all’inizio degli anni Sessanta. Finito il servizio militare gli viene proposto di fermarsi in città per lavorare prima al Civile, in particolare nella 4^ Medicina, come aiuto del prof. Levi, e poi dal ‘77/78 all’Istituto Clinico S. Anna. Brescia è diventata la sua città d’adozione, anche perché ha sposato Wally, bresciana Doc, dalla quale ha avuto due figli entrambi medici, Alessandro cardiologo ed Emanuela psichiatra, purtroppo deceduta nel 2007, che ha lasciato in dono Mariachiara, ora iscritta alla Facoltà di Medicina di Padova.
Un’”icona professionale” dalla lunga carriera, mai conclusa, se è vero che ancora oggi, camice bianco e fonendoscopio al collo, il professore visita nell’ambulatorio di Cardiologia dell’Istituto Clinico S. Anna di Brescia. Tutte “ricette rosse”, ovvero con il Servizio Sanitario Nazionale, “ma nel calendario giornaliero lascio sempre un posto libero per le urgenze”, racconta.
Apprezzato cardiologo (ma è anche specialista in Medicina generale e in Ematologia), libero docente in Semeiotica Medica, festeggia quest’anno i 65 anni di laurea, ed è il più vecchio iscritto in Italia alla Società Italiana di Cardiologia.
Oltre una certa età le scelte di vita dei medici sono varie, e negli ultimi tempi sta crescendo il numero di colleghi che decidono di lasciare il prima possibile. La tua è invece una scelta controcorrente. Cosa vuol dire per te essere medico e che rapporto esiste con la professione nell’arco della vita?
Per me essere medico significa stare a contatto con il paziente. Quando visito è importante guardare il paziente in faccia, creare un contatto.
Oggi invece la prospettiva è molto cambiata, la priorità è prescrivere esami e accertamenti, mentre mettere un fonendoscopio sul torace del paziente sembra passato in secondo piano. Ho la sensazione che il momento della visita abbia perso il suo valore, quando invece dovrebbe essere occasione per valutare non solo il cuore, ma il malato nel suo insieme.
Pensiamo a un gesto fondamentale, quello di porre la mano sull’addome durante la visita cardiologica. Ebbene, su una media di 100 pazienti, questo accade solo ad uno o due. Eppure questo tipo di valutazione può dire molto (quanto meno per individuare un eventuale aneurisma aortico). Con questa semplice indagine a me è capitato, ad esempio, di fare diagnosi di splenomegalia su diversi pazienti.
Non hai mai smesso di lavorare. Cos’è che ti ha spinto a continuare?
Mi piace visitare il malato, sentirlo, parlare con lui. Le mie visite si concludono sempre con una frase di rito – “sono stato chiaro?” – perché credo sia fondamentale informare i pazienti in modo corretto e accessibile, rendendoli partecipi del percorso che si sta facendo insieme.
Faccio ambulatorio con impegnative del Servizio sanitario nazionale, limitando la libera professione a titolo privato. Credo sia importante costruire un buon rapporto con il medico di medicina generale, che rappresenta il “curante”: il passaggio di consegne con il medico di famiglia è un elemento irrinunciabile che completa il tuo lavoro di specialista. Ho sempre dato importanza a questo momento, perché sottintende il rispetto sia del paziente, che del suo curante.
Hai sempre avuto molti interessi culturali e di approfondimento scientifico.
Nel 2002 ho fondato la Sicoa – Società Italiana Cardiologia Ospedalità Accreditata, di cui sono stato presidente per cinque volte. L’idea è nata lavorando in ospedale all’Istituto Clinico S. Anna, quando mi sono reso conto che i medici delle realtà private accreditate come San Raffaele, Humanitas, Gruppo San Donato non venivano mai invitati ai convegni, dove prevaleva la componente accademica. In sei mesi siamo riusciti a raccogliere le adesioni di 1400 cardiologi.
Per molti anni sei stato anche consigliere dell’Ordine di Brescia…
Per 27 anni. Ero responsabile dell’aggiornamento e dei progetti culturali. Ricordo le infinite discussioni fra le diverse “anime” del Consiglio sul rapporto fra pubblico e privato accreditato in sanità, scambi di vedute che si concludevano sempre in amicizia.
Quale consiglio daresti ai giovani medici, perché questa professione non si riduca a tecnicismo e burocrazia?
Penso non si possa rinunciare alla tecnologia, ma sia altrettanto importante un inquadramento del malato nella sua interezza e complessità. Ai giovani direi: siate consapevoli dell’aiuto importante offerto dalla tecnologia, ma al contempo sappiate “ascoltare” bene. Ascoltate il paziente, perché sotto il sintomo ci può essere qualcosa di importante, che si svela se, da medici, saprete conoscere la persona che avete davanti.
Fare i test per capire la reale attitudine a fare il medico è complicato, anche se ritengo che dal terzo-quarto anno dovresti avere chiara qual è la tua strada, e non scegliere un percorso solo perché ormai ci sei e lo fai.
Per tutti, e soprattutto per chi opera sul territorio, penso che l’empatia nei rapporti sia un requisito imprescindibile.
Torneresti a fare il dottore?
Di sicuro. Ho sempre amato aiutare gli altri. E ho sempre avuto il bisogno di raggruppare persone per scambiarsi idee, fin da quando, sedicenne, ho vissuto il mio primo Jamboree mondiale dello Scoutismo in Austria, il primo dopo la guerra: un’occasione unica di ritrovo e confronto per la nostra generazione, con 61 nazioni partecipanti e quasi 13 mila ragazzi. Questo impegno nel sociale prosegue anche oggi con l’associazione di volontariato Un medico x te, cui partecipo per l’ambito cardiologico, con l’obiettivo di offrire assistenza medica gratuita alle persone in difficoltà.
Nel ritornare a casa soddisfatto per avere aiutato tanti anziani spesso mia moglie mi fa notare ridendo che molti saranno stati più giovani di me…
Perché molti medici in attività vogliono smettere?
Sembra che la medicina non sia più il loro interesse principale. Ma soprattutto si è perso l’entusiasmo. Basta osservare il giro visita dei pazienti ricoverati: un tempo i medici dell’équipe erano tutti presenti, dal primario allo specializzando. Ora invece c’è chi fa il giro a metà, chi si assenta, chi si stacca per andare in ambulatorio. Pare si sia smarrita la passione, e la voglia di sentirsi utili per gli altri, che per me invece è fondamentale. Mi è capitato ultimamente di riuscire a far eseguire a una giovane donna una risonanza magnetica urgente di cui aveva bisogno, grazie alla triangolazione con i colleghi radiologi. Diversamente si sarebbero dilatati di molto i tempi per l’inquadramento diagnostico e le scelte da prendere. Sono piccoli gesti che vogliono dire molto, per il paziente, perché riacquista serenità, per noi perché ci aiutano a ritrovare il senso del nostro mestiere.
Grazie Cesare pet il tuo entusiasmo e per i tuoi isnegnamenti! Utili a tutti… ai giovani soprattutto!