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Notiziario dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Brescia – aut. Tribunale di Brescia n. 195/1962

Una nuova idea di Pronto Soccorso

Intervista a cura di Gianpaolo Balestrieri e Lisa Cesco

I problemi del Pronto Soccorso sono più che mai al centro dell’attenzione mediatica. Sovraffollamento, accessi inappropriati, tempi di attesa, aggressioni al personale, scarso appeal sugli specializzandi, fuga degli operatori, fino all’utilizzo dei cosiddetti “gettonisti”. Ne parliamo con il dottor Cristiano Perani, responsabile del Pronto soccorso di Brescia degli Spedali Civili, per ragionare, partendo dalla sua esperienza, su quali possono essere le priorità da considerare per superare la crisi in atto.

Il Pronto Soccorso del presidio di Brescia degli Spedali Civili ha registrato lo scorso anno, escludendo il Pronto Soccorso pediatrico e quello ostetrico ginecologico, 67 mila accessi, con una tendenza in crescita dopo il periodo pandemico. Nel 2019 gli accessi erano stati 75 mila, poi l’arrivo del Covid ha rappresentato una cesura. Cosa è cambiato?

E’ cambiata la complessità: i pazienti sono più anziani e complicati – un fenomeno spiegabile anche con l’onda dell’invecchiamento della popolazione, ma anche con le scelte da parte dell’utenza verso un ospedale di elevata specializzazione – e al contempo ci dobbiamo confrontare con spazi disponibili più limitati rispetto a prima. L’ospedale non è ancora “guarito” dal Covid, ci sono posti letto in meno, c’è stata la fuoriuscita di diversi operatori. E il Pronto Soccorso è particolarmente esposto perché per sua natura si trova nello snodo delicato tra il territorio e l’ospedale.

Eppure siete l’ospedale di secondo livello con una delle migliori performance a livello regionale riguardo al boarding, ovvero il tempo passato in astanteria, spesso estenuante per il paziente, in attesa di un posto disponibile per il ricovero.

Abbiamo un tasso di boarding basso perché lavoriamo molto sulla strategia degli “appoggi”, valorizzando i letti disponibili nei diversi reparti, grazie a un lavoro di rete: in questo modo si riesce a dare una destinazione al paziente nell’arco di ore, in media fino a un massimo di 8, decisamente più accettabile rispetto ad altri contesti, in cui le ore possono diventare 30, e i pazienti sono costretti in barella anche per giorni. Questo grazie alla preziosa collaborazione dei reparti ospedalieri, che permette di ridurre la pressione che grava sul PS distribuendone quote al resto dell’ospedale.

Resta, invece, il problema del sovraffollamento: nei periodi più critici si arriva anche a picchi di 100 pazienti presenti contemporaneamente in Pronto Soccorso. Un aiuto importante sarebbe riuscire ad ottimizzare percorsi alternativi al PS, da costruire sia sul territorio che in ospedale, sul modello, ad esempio, del progetto DAMA realizzato per le persone con disabilità. Non va dimenticato che il Pronto Soccorso lavora bene sull’emergenza urgenza, ma per tutto il resto non siamo il luogo per dare le risposte più efficienti.

Il dottor Cristiano Perani

Più di vent’anni fa tu e un gruppo di allora giovani medici avete fatto la scelta professionale di lavorare in PS, fino a quel tempo considerato un punto di passaggio iniziale nella carriera di un medico ospedaliero. Quali sono state le motivazioni di allora?

Da specializzando in Medicina Interna con indirizzo in Medicina d’Urgenza ho vissuto la nascita di una nuova idea di Pronto Soccorso, non più imperniato sul principio del personale a rotazione ma di un’équipe unica, in cui ha creduto l’allora primario Paolo Marzollo, sul modello di quanto accadeva anche all’ospedale Niguarda di Milano per iniziativa di Daniele Coen. L’idea, che ha precorso i tempi, era quella di formare il medico unico di Pronto Soccorso, intuizione che diversi anni dopo sarebbe stata formalizzata con il debutto della Scuola di specialità in Medicina di Emergenza Urgenza. La prospettiva di lavorare in PS da una parte mi spaventava, dall’altra mi stimolava, nella convinzione che un anno di esperienza lì mi sarebbe tornato utile per avere le spalle più larghe quando sarei tornato in reparto. Alla fine in reparto non ci sono più tornato.

Il bello del tuo mestiere?

Lavorare in Pronto Soccorso è bellissimo se vuoi fare il clinico. La sfida diagnostica è affascinante, riuscire a inquadrare il paziente, fare una buona stratificazione dei sintomi. Io, in particolare, ho coltivato la passione per la diagnostica ecografica, un ambito che mi ha dato occasioni di crescita e confronto anche con altre realtà.

Va detto che nella fase iniziale del “nuovo” Pronto Soccorso eravamo un nucleo di giovani con pochi maestri (perché il primario e i medici più esperti erano prevalentemente rianimatori), ma molto motivati a studiare e a fare gruppo fra di noi. La paura di sbagliare era il motore, ed essendo giovani, inesperti ma sempre aggiornati in corso d’opera e aperti alle novità scoprivamo che si riusciva ad essere efficaci nei nostri interventi. Fondamentale è stato il lavoro di équipe, la condivisione stretta con infermieri e consulenti. Quel nucleo storico, pur con gli inevitabili cambiamenti e defezioni, si è mantenuto fino ad oggi.

I giovani medici dimostrano scarso interesse verso la Medicina di Emergenza Urgenza, come rivelano i molti posti scoperti nella Scuola di specialità: a Brescia nel 2023 su 16 borse disponibili solo 4 sono state assegnate. Quali soluzioni possibili?

Ritengo indispensabile ripartire dalla motivazione. Rispondere alle aspettative degli specializzandi, valorizzare la loro professionalità. Ad esempio creando i presupposti perché possano misurarsi con tutte quelle attività che il curriculum europeo consente loro di svolgere. Pensiamo alle diverse procedure e skill specifiche dell’emergenza urgenza, con cui il giovane medico può cimentarsi in autonomia e con soddisfazione.

Una volta completato il percorso di specializzazione questi medici hanno sempre più “mercato”. Come trattenerli?

Lo sforzo da mettere in campo è quello di essere attrattivi perché scelgano di fermarsi in un ambito come il Pronto Soccorso, dove il rischio medico legale è elevato, i momenti di tensione inevitabili, l’interfaccia con gli altri reparti non sempre semplice. Nella nostra esperienza si lavora per offrire opportunità come quella di sperimentarsi anche sul territorio, nelle ambulanze e nel servizio 118, così come nel nuovo reparto di Medicina d’Urgenza, che ospita un’area semi intensiva di stabilizzazione e osservazione, e nell’Osservazione Breve Intensiva dove è possibile stabilire un rapporto più stretto con il paziente.

Avere l’occasione di ruotare fra i diversi setting è un elemento che può fare la differenza, analogamente alle possibilità di crescita offerte dall’attività didattica e di aggiornamento, ad esempio per specializzarsi nelle tecniche ecografiche. Non va poi trascurato il benessere organizzativo, che va salvaguardato anche ponendo, quando necessario, alcuni “paletti” per regolare i turni nel week end o la rotazione nei Pronto Soccorso dei presidi periferici.

Andrebbero aumentati i compensi per chi lavora in Pronto Soccorso?

Quella di Pronto Soccorso è per sua natura un’attività logorante e ad alto rischio, e questo vale non solo per i medici (che se lavorano in PS, peraltro, abitualmente non fanno libera professione) ma anche per gli infermieri, che condividono responsabilità importanti e un carico di lavoro stressante. Sarebbe indispensabile, quindi, permettere di differenziare il setting in cui si lavora, anche sotto l’aspetto retributivo, riconoscendo agli operatori di PS compensi proporzionati all’impegno richiesto.

Come vedi la recente delibera di Regione Lombardia che per prima ha messo al bando i medici “gettonisti”, a favore di medici libero professionisti che vengono selezionati con bando Areu?

Il problema sostanziale con i “gettonisti”, al di là delle competenze dei singoli, è che non fanno parte del gruppo, e quindi del suo miglioramento: non essendo in organico, e non garantendo una presenza continuativa, non possono essere coinvolti nei percorsi di formazione, organizzativi e di confronto.

Anche per queste ragioni dallo scorso ottobre nel PS del presidio di Brescia, facendo leva sui turni incentivati, non ci appoggiamo più a medici gettonisti (che da noi si sono sempre occupati solo di codici minori).

La delibera di Regione introduce un miglioramento, soprattutto perché normalizza i compensi, che prima erano sproporzionati rispetto ai corrispettivi riconosciuti ai medici strutturati. Penso che la sfida, ora, sia diffondere la normativa anche nelle altre Regioni, diversamente si rischia un impoverimento di professionisti che potrebbero decidere di spostarsi nelle aree limitrofe alla Lombardia, dove è più redditizio prestare servizio.

Al bando di Areu per la selezione dei libero professionisti da destinare ai Pronto Soccorso possono partecipare anche gli specializzandi.

Questo è un aspetto fondamentale, perché attingere al bacino degli specializzandi è un modo per dare loro responsabilità e gratificazione. La gestione della bassa intensità e dei codici minori in Pronto Soccorso equivale infatti alla continuità assistenziale, può essere quindi coperta dai medici in specialità.

Il Pronto Soccorso è crocevia di tanti vissuti, che possono generare tensioni e spesso sfociare in episodi di violenza, come purtroppo documentano le cronache. Qual è la tua esperienza?

Le forme di aggressione più frequenti sono legate a pazienti con background di abuso di sostanze e problemi psichiatrici, ma nella quotidianità di tutti i giorni a pesare di più è l’intolleranza dei parenti dei pazienti meno urgenti.

Oltre agli incontri con la Questura per verificare l’andamento degli episodi di violenza, e a passaggi periodici di agenti di Polizia che hanno un effetto di deterrenza e rendono il personale più tranquillo, un aspetto importante su cui stiamo lavorando è la cura della comunicazione, che viene gestita dalle volontarie della Croce Rossa Italiana e dell’associazione Agape: si tratta di un lavoro prezioso nei confronti dei famigliari e dei pazienti, che consente di stemperare tensioni, chiarire incomprensioni e tenere sotto controllo i comportamenti. L’obiettivo futuro è di ampliare il progetto, per assicurare una presenza continuativa di queste figure, con il coinvolgimento della rete del volontariato locale.

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