Di lui avevo ricordi indiretti. Mio padre me ne ha cominciato a raccontare quando avevo poco più di 15 anni. Mia madre era stata operata di cancro al seno e in seguito irradiata e i medici avevano sconsigliato vacanze al mare, che lei avrebbe gradito, o in alta montagna, che sarebbe piaciuta invece a mio padre. Avevano deciso pertanto per un paese dell’alto Garda occidentale: lei avrebbe potuto vedere l’acqua e ugualmente mio padre avrebbe potuto andare a funghi per i boschi. In quel piccolo paese a mio padre non parve vero di incontrare un senatore importante del partito in cui militava, che lì trascorreva le vacanze estive. Era la fine degli anni sessanta, la società era in subbuglio, il partito nel quale entrambi militavano era il principale bersaglio delle contestazioni.
La sera, a cena, mio padre raccontava delle lunghe passeggiate che faceva col senatore, delle loro conversazioni, e lasciava trasparire l’orgoglio del poter godere di quella “amicizia”, che diventava di giorno in giorno non più solo di partito.
A me allora della politica e di quel partito non importava nulla; mi interessavano i nuovi amici coi quali giocare a calcio o fare lunghe nuotate, le ragazzine per qualche bacio nel dopo cena e forzatamente i libri da leggere per le vacanze.
Ho rivisto ripetutamente il senatore dopo quarant’anni, dapprima per la malattia della moglie e poi per la sua. Ho ricordi bellissimi di alcune occasioni in cui ero andato a trovarlo in quel paese dell’alto Garda, dove aveva mantenuto la consuetudine della vacanza estiva, che in vecchiaia durava più di tre mesi. Ora negli incontri stimolavo il racconto di episodi che riportassero alla mente mio padre, di storie che già avevo sentito in casa.
Durante i ricoveri che negli ultimi tempi della malattia diventavano sempre più ravvicinati, leggeva prevalentemente libri di spiritualità. È stato lui a farmi conoscere Romano Guardini (sul comodino aveva una copia della prima edizione de “Il Signore” che aveva letto per tre volte e sottolineato o appuntato con stupenda grafia, la prima volta con una matita rossa, la seconda con una blu, e la terza con una verde).
Intellettualmente generoso: sapeva raccontare e a me piaceva ascoltare.
Due giorni prima che morisse mi sono fermato più a lungo del solito nella sua stanza d’ospedale, aveva voglia di parlare. Tra le molte cose raccontate la nostalgia della vita delle sezioni di partito, le inevitabili asperità delle discussioni che tuttavia, alla fine, un semplice drink sapeva cancellare.
L’istinto (clinico?) mi ha spinto all’azione: fingendo di ricevere una telefonata e scusandomi, gli ho detto di un’urgenza, l’ho salutato, sarei ripassato a problema risolto. Sono uscito dall’ospedale per il più vicino supermercato e ho acquistato gli ingredienti. In meno di mezz’ora ero di ritorno. In cucina ho recuperato un paio di bicchieri, ghiaccio e un’arancia, dopo poco ero al suo capezzale con il miglior Negroni fino allora mai preparato. Ne ha bevuto poco meno di un sorso guardandomi e sorridendomi con immensa gratitudine per quell’inatteso incidente di vita.
In ospedale è vietato bere alcolici, ma io, medico, so che quella trasgressione è uno degli atti terapeutici di cui devo andare fiero.