Notiziario dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Brescia – aut. Tribunale di Brescia n. 195/1962

Il mio hobby? E’ il lavoro!

“Sono sempre andata a lavorare volentieri, felice. E la felicità massima, per me, è sempre stata entrare in sala operatoria”. Sarà per questo che, una volta raggiunta la pensione, la dottoressa Stefania Stefini non si è fermata un attimo e ha scelto di continuare a lavorare in una specialità, l’otorinolaringoiatria, che la rende compiuta e appagata.

Sei di origini milanesi e hai studiato Medicina a Pavia: raccontaci i tuoi inizi.

Ho sempre avuto l’idea di fare il medico, e già dal terzo anno di Università ho iniziato ad appassionarmi agli aspetti chirurgici, frequentando la Chirurgia generale per un periodo formativo, dove mi hanno permesso di iniziare a cimentarmi con le suture a fine intervento. Poi, alla fine dell’esame di Semiotica chirurgica e tecniche chirurgiche, il direttore della Scuola, che mi aveva esaminato, mi ha dato un bacio sulla guancia. Scontrarmi con questo ostacolo sessista mi ha fatto riflettere molto nei giorni successivi, e alla fine mi sono detta: in quel reparto non ci vado più. Volevo fare Chirurgia generale, forse questo ha segnato il mio destino.

Poi com’è andata?

Devo dire che da allora in poi non ho più avuto insidie di questo tipo. Al quarto anno c’era Otorinolaringoiatria, mi piaceva ma non avevo ancora gli strumenti per capirla nel suo complesso, per questo ho deciso di lasciarla lì e di dare l’esame alla fine del quinto. La tesi l’ho fatta in Oculistica, mi sono laureata nel ’73, ma alla fine come specialità ho scelto Otorino, che mi piaceva di più. Eravamo poche, allora, noi dottoresse: nella specialità ero la terza donna otorino nella storia dell’ateneo di Pavia. Sono stata assunta già dal secondo anno di specialità, dedicandomi sia agli adulti che all’ambito pediatrico. Erano tempi in cui non c’era l’ecografia né la Tac o la Risonanza, tutto era molto più difficile perché non avevi gli strumenti di cui disponiamo adesso per la diagnosi.

In seguito sei approdata a Brescia, all’ospedale Civile, con il prof. Scuderi….

Un’esperienza importante, di cui ricordo anche i turni massacranti, sempre di guardia. Poi sono passata all’Ospedale dei Bambini con il prof. Borgo, dove ho imparato molto: nei bambini o ti trovi a gestire aspetti routinari, o all’opposto cose molto difficili. Tornata all’ospedale per adulti, ho intrapreso un lungo, importante periodo di lavoro nella Clinica Otorinolaringoiatrica diretta dal prof. Antonio Antonelli, che è stato per tutti noi un vero Maestro, oltre che un grande chirurgo. Mettendo al centro il paziente (qualunque paziente!) era riuscito a creare un ambiente di collaborazione e rispetto fra tutti i colleghi, in cui si lavorava con entusiasmo per la miglior cura del malato. E questo clima ha determinato per tutti una crescita professionale ed un ambiente favorevole per la formazione degli specializzandi. Il prof. Antonelli ha saputo creare una vera scuola dalla quale sono usciti cattedratici e primari.

Negli ultimi anni, poi, sono stata responsabile del reparto ad indirizzo pediatrico fino al momento della pensione, lasciando ottimi colleghi, validissimi specialisti.

La dottoressa Stefini

Otorinolaringoiatra votata alla chirurgia e donna: come hai fatto a conciliare i tempi di lavoro e quelli della famiglia?

Io sono sempre stata un’anticonformista. Ho avuto tutto sulle mie spalle. Quando sono nate le mie due figlie lavoravo ancora a Pavia, e ricordo che fino al giorno del parto sono rimasta in Clinica. Tutto il mio stipendio e metà della tredicesima di mio marito andavano in aiuti domestici. Con lui, che è medico come me, ci siamo detti tante volte “Non importa se ci pagano poco: lavoriamo talmente tanto che non avremmo il tempo di spenderli”. Resta indubbio che spesso la conciliazione è tutta sulla pelle delle donne, e talvolta ci sono cose, come la carriera universitaria, che ti rimangono in sospeso.

I pregiudizi di genere hanno condizionato il rapporto con i pazienti e le loro famiglie?

Con i pazienti non ho mai avuto problemi. In corsia ho incontrato colleghi eccezionali, sono sempre riuscita ad andare d’accordo con tutti.  E’ capitata, invece, all’ospedale Civile una suora che riteneva inopportuna la presenza di una donna in reparto. “Non è un posto per lei”, sussurrava al primario, salvo poi ricredersi quando mi ha visto operare sul campo. Allo stesso modo un po’ di diffidenza l’ho percepita inizialmente dagli infermieri, che chiamavano in ogni momento per tenerti sulla corda.

Nove anni fa è arrivato il tempo della pensione. Come hai vissuto questo passaggio?

Il mio ultimo giorno in ospedale ricordo di avere operato fino alle 4 del pomeriggio, e poi alle sei di avere stimbrato ed essere venuta via. Non avevo mai pensato al dopo, vivevo alla giornata.

Ma passato un solo mese mi sono resa conto che avevo perso la mia identità, mi alzavo la mattina e mi chiedevo: “Chi sono io”? Non ero più carica alla prospettiva di andare in ospedale, cosa che mi rendeva sempre contenta. Scherzando – ma non troppo – ho sempre detto che il mio hobby è il lavoro.

Come è iniziata la tua “seconda vita”?

Ho iniziato a collaborare con una clinica convenzionata a Piacenza, successivamente anche l’Istituto clinico Città di Brescia mi ha chiesto di prestare servizio. Con il Covid l’esperienza piacentina si è conclusa, mentre da sei anni prosegue quella con la Città di Brescia. Il mio unico rammarico è di poter operare poco, complici dei Drg di rimborso alle strutture che in otorino sono bassi.

A proposito di Drg, che idea ti sei fatta della gestione degli ospedali e dei problemi della sanità?

Penso che chi amministra la sanità invece di interessarsi dei muri dovrebbe interessarsi di chi ci lavora, all’interno di quelle mura, ovvero medici e infermieri, e procurare segretarie che si occupino degli aspetti burocratici, sempre più gravosi. Il medico e l’infermiere non devono essere costretti a passare ore al computer, trascurando la clinica e il rapporto con il paziente.

Nella tua visione organizzativa di un ospedale sostieni che non possa esistere un’Otorinolaringoiatria pediatrica, per quali ragioni?

Può esserci un indirizzo pediatrico, ma l’Otorinolaringoiatria non è di per sé una specialità pediatrica. Curare i bambini significa nella maggior parte dei casi affrontare problematiche comuni, come tonsilliti, faringiti e otiti, aspetti su cui è fondamentale interfacciarsi con i pediatri. Quando invece si tratta di misurarsi con problematiche più gravi come le malformazioni embrionali, pensiamo ad esempio a quelle laringee, ed è necessario sottoporre il bambino ad un intervento chirurgico, ci vuole un chirurgo scafato, che abbia maturato una vasta esperienza con i pazienti adulti. In questi frangenti è necessaria molta esperienza, e la si ottiene cimentandosi su una casistica ampia, che non può essere solo pediatrica. Per queste ragioni un reparto pediatrico non può essere separato dal resto.

Come vedi il tuo futuro?

L’età che avanza presenta inevitabili incognite, e la domanda che mi sto ponendo adesso è: fino a quando sarò in grado di lavorare ancora? Altrettanto forte è la consapevolezza che a me piace tanto il mio lavoro. Se nasco ancora una volta faccio l’otorino.

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