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Notiziario dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Brescia – aut. Tribunale di Brescia n. 195/1962

Al ritmo del cervello

il dottor Alberto Benussi, neurologo e ricercatore dell'Università degli Studi di Brescia

La cosa che gli manca di più è il mare di Trieste, le uscite in barca a vela e le immersioni in profondità. Ma a Brescia ha trovato un orizzonte nuovo, per cercare di dare risposte a malattie come le demenze e l’Alzheimer che sono oggi un’emergenza globale. Un altro mare aperto, in fondo, da esplorare.

Alberto Benussi ha 36 anni, una laurea in Medicina all’Università degli Studi di Trieste e una specializzazione in Neurologia all’Università degli Studi di Brescia, di cui oggi è ricercatore. E’ in prima linea nello sviluppo di nuovi metodi di stimolazione cerebrale non invasiva per la diagnosi e cura dei pazienti affetti da malattie neurodegenerative, un impegno che gli è valso diversi, importanti riconoscimenti, fra cui di recente il Premio europeo per giovani ricercatori-SCOR 2022 conferito dalla Fondazione per la Ricerca sull’Alzheimer.

Dottor Benussi, perché hai scelto neurologia e perché Brescia?

La neurologia mi ha sempre intrigato perché è un campo di ricerca con molti aspetti sconosciuti, ancora da scoprire. Quando mi sono laureato non c’era ancora l’esame nazionale per entrare in specialità, in molti atenei le disponibilità di posti erano scarse, devo ringraziare Brescia con il prof. Alessandro Padovani, direttore della Scuola di specialità e della Clinica neurologica UniBs-Spedali Civili, che mi ha dato fiducia, aprendo le porte alla possibilità di specializzarmi in una prestigiosa Scuola.

Durante quel periodo hai fatto esperienze anche all’IRCCS Santa Lucia di Roma e al Centro di Stimolazione Cerebrale dell’University College di Londra, acquisendo le basi di queste nuove metodiche. Quali applicazioni nelle demenze?

Sono diverse le potenzialità che stiamo studiando. Innanzitutto sul fronte diagnostico: la diagnosi delle demenze, infatti, non è sempre facile e spesso risulta tardiva. I risultati delle ricerche realizzate in particolare grazie al sostegno di Airalzh – Associazione Italiana Ricerca Alzheimer Onlus, con l’arruolamento di un migliaio di pazienti, dimostrano che la stimolazione magnetica transcranica (TMS) di alcune aree cerebrali – mediante specifici biomarcatori di connettività corticale – potrà rappresentare una modalità non invasiva ed economica per identificare le fasi precoci della malattia di Alzheimer e per effettuare una diagnosi differenziale delle diverse forme di demenza.

C’è poi il filone terapeutico: dopo tanti fallimenti accumulati, riusciremo a trovare una cura per l’Alzheimer?

Questa malattia è ancora una sfida, ed è necessario un cambiamento nel modo di affrontarla. Finora ci si è concentrati soprattutto su molecole volte a contrastare il deposito di beta amiloide nel cervello, proteina il cui accumulo porta alla morte neuronale ed è ritenuta causa dell’Alzheimer. Il vero cambiamento passa da un approccio simile a quello attuato nei confronti dei tumori, in cui non viene utilizzato un unico farmaco, ma un cocktail di diversi farmaci con diversi bersagli molecolari. L’obiettivo è allargare il nostro sguardo anche ad altri fattori che entrano in gioco nello sviluppo della malattia.

Considerando, ad esempio, che anche il cervello segue una sua “musica”, il cui ritmo può venire alterato…

Questo aspetto è al centro dei miei studi sulla stimolazione cerebrale, e rappresenta le potenzialità terapeutiche di questa metodica. L’Alzheimer, infatti, si caratterizza per un’alterazione dei ritmi cerebrali, cioè le naturali oscillazioni dell’attività elettrica, che rallentano e si de-sincronizzano. Abbiamo sviluppato diversi protocolli riabilitativi con l’impiego di corrente elettrica alternata a bassa intensità, una metodica non invasiva per il paziente (si esegue mediante il posizionamento di piccoli elettrodi sul cuoio capelluto), che consente di “trascinare” e “risincronizzare” i ritmi cerebrali alle corrette frequenze, e favorisce un miglioramento delle funzioni cognitive, in particolare la memoria. Studiando questo tipo di stimolazione sui topi si è visto che aiuta a “ripulire” il loro cervello dai depositi di beta amiloide.

Una seconda modalità di stimolazione prevede invece l’utilizzo di corrente continua, in grado di attivare i meccanismi di plasticità sinaptica.

A che punto siete con questi filoni di ricerca?

Partirà a breve uno studio pilota sui primi 30 pazienti con decadimento cognitivo lieve o nelle fasi iniziali di demenza, con l’obiettivo di misurare i benefici cognitivi a lungo termine della stimolazione cerebrale con corrente alternata: per valutare gli effetti di una stimolazione continuativa abbiamo anche messo a punto un dispositivo portatile che può essere utilizzato direttamente a casa dal paziente.

Sei anche Principal investigator di un progetto sulla demenza frontotemporale vincitore di un importante finanziamento di Fondazione Cariplo: il vostro focus sono le forme di demenza atipica ad esordio precoce, con componente genetica, che ricorrono con una certa frequenza in alcune aree del territorio bresciano, come la Valle Camonica.

Questa malattia, che ha un peso sociale importante perché colpisce persone ancora in età attiva, si riscontra più di frequente nelle comunità ristrette che per motivi geografici sono rimaste storicamente isolate. In una percentuale significativa di pazienti, studi condotti dalla professoressa Barbara Borroni dell’Università di Brescia hanno riscontrato una positività ad auto-anticorpi contro specifici recettori neuronali, e stiamo indagando le possibili componenti autoimmuni di questa forma di demenza, studiando in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano il ruolo di questi auto-anticorpi in modelli animali.

Da quasi due anni sei responsabile del Centro per i Disturbi Cognitivi e le Demenze degli Spedali Civili. Attività clinica e ricerca sono due aspetti non sempre facili da conciliare: come ci riesci?

Penso che la clinica aiuti molto la ricerca, perché è dalla vita reale che arrivano le idee e anche le chiavi di lettura per la comprensione dei problemi. Sono due sfere molto interconnesse fra loro, ed è proprio la clinica che permette di applicare la ricerca più facilmente.

Hai bruciato le tappe raggiungendo presto una posizione importante, ma c’è qualcosa che ti pesa di più nel tuo lavoro?

La parte burocratica, sicuramente. Dalla compilazione dei Piani terapeutici, ormai inutili, allo scontro con i sistemi informatici, che invece di agevolarci il mestiere ce lo complicano, si va incontro ogni giorno ad una perdita di tempo enorme, un tempo che viene sottratto alla cura del malato e al dialogo con pazienti e famigliari. La burocrazia rischia davvero di alienare dalla professione.

La medicina di oggi è sempre più tecnologica, e i vantaggi delle nuove opportunità diagnostiche sono indiscutibili. Non si rischia tuttavia di mettere in secondo piano l’intuito clinico, insieme alla componente umanistica della professione?

In neurologia ci affidiamo molto alla risonanza magnetica, un esame così avanzato da risultare spesso dirimente, che consente di mettere a fuoco anche i più piccoli dettagli. Inevitabilmente l’esame obiettivo neurologico ha un po’ perso smalto, ma sono convinto che dall’intuizione clinica non si possa prescindere, e che il ruolo del clinico continuerà ad essere fondamentale, anche in un panorama di tecnologie sempre più sofisticate. La curiosità, l’umiltà e l’inclinazione a non dare mai nulla per scontato devono rimanere i nostri valori guida.

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