La testimonianza del dottor Nicola Bastiani durante l’incontro dello scorso dicembre al Brixia Forum, che ha riunito operatori sanitari e volontari in prima linea nella lotta contro la pandemia da Covid-19.
Mi chiamo Nicola Bastiani e sono un Medico di Medicina Generale. Lavoro a Coccaglio dal 2017.
Sono inserito in una medicina di gruppo con 5 medici e personale di studio. Per mia fortuna vengo dalla scuola della medicina generale Bresciana che si è sempre dimostrata estremamente moderna e collaborativa, tale da diventare un modello per molte altre provincie e regioni.
Purtroppo sulla strada di un’evoluzione della medicina generale ci siamo trovati la pandemia…
Ricordo ancora con difficoltà quel periodo: essendo inserito da poco tempo dovevo dividermi tra l’ambulatorio, la continuità assistenziale (la vecchia guardia medica) e qualche ora in RSA. In tutte le 3 attività eravamo a contatto diretto con i casi Covid. Coccaglio, essendo nel sud-ovest della provincia, ha ricevuto il primo “canale” di diffusione della malattia già dai primi giorni di marzo 2020.
Ricordo i primi giorni, le poche mascherine, i guanti razionati. Il territorio, tutto, si è trovato impotente. Senza certezze, senza terapie e davanti a qualcosa che non conosceva.
Ci rendevamo conto di essere in prima linea. E di prima linea si è trattato: circa un terzo dei medici morti per covid era un Medico di Medicina generale. Il contributo è stato altissimo: indice dell’elevatissima esposizione al rischio che abbiamo avuto soprattutto nelle prime settimane di pandemia!
Da un giorno all’altro le comunicazioni con i referenti territoriali di ATS (fiore all’occhiello del vecchio distretto della Franciacorta) si sono inevitabilmente ridotte al minimo. Passavano i giorni e capivamo che la situazione era talmente critica che nessuno poteva avere il polso della situazione.
Nell’era delle comunicazioni facilitate, dei social media, delle medicine aggregative ha pian piano preso piede la “solitudine del medico”. Nel mio studio su 5 medici siamo rimasti solamente in 2: il mio collega dirimpettaio era ricoverato con una “strana polmonite” e ogni giorno arrivavano notizie più o meno scoraggianti, altre 2 erano a casa incapaci di alzarsi dal letto. Passavamo ore da soli in ambulatorio: meno si stava vicini meno erano le probabilità di ammalarsi.
I pazienti avevano bisogno: le telefonate sono diventate 50-90-120 al giorno. I sintomi diventavano più chiari: quello strano rumore polmonare, mai sentito prima, che sembrava “neve schiacciata”, ormai stava diventando la norma.
Consigliavi la tachipirina, forse l’antibiotico e poi aspettavi: dopo 2-3 giorni alcuni peggioravano.
“Com’è la saturazione signora? Chiedevamo… “90?89?” meglio chiamare l’ambulanza… Avevamo allestito una stanza apposita per i pazienti con la febbre. Abbiamo chiamato decine di ambulanze…
Diversi malati non sono più tornati a casa… Alcuni erano tra quelli che frequentavano assiduamente la nostra infermeria, che spesso ci offrivano un caffè o un sacchetto di brioche…
Il lavoro era “artigianale”. Le prime linee guida sono arrivate dopo settimane. Prima ci si basava sulle poche informazioni che circolavano nelle chat.
Però è accaduto qualcosa che non si poteva immaginare: quasi senza volerlo si sono creati canali di comunicazione con i colleghi anche distanti, abbiamo iniziato a fare videocall a tutte le ore del giorno.
Le istituzioni (Ordine dei medici, società scientifiche, ATS) hanno prodotto le prime indicazioni gestionali. Ai tempi sono state davvero una boccata di aria fresca…
Nel nostro paese abbiamo iniziato a collaborare con l’amministrazione locale, con le assistenti sociali, con le associazioni, con le farmacie. Si è creata una vera e propria rete con al centro il paziente.
Potevamo individuare i casi complessi, decidere insieme come gestirli e monitorarli grazie ai tanti volontari che si sono prestati (a rischio della loro vita) ad andare al domicilio dei pazienti per raccogliere segnali che potevano anticipare un peggioramento.
In una parola sola: “successo”.
Finalmente, dopo quasi un anno, arriva un vaccino. Ancora ricordo con quanta fierezza sono andato farmi vaccinare il 4 gennaio 2021, tra i primi in Italia. Era un vantaggio essere medico.
Poco dopo inizia l’altra grande avventura: la campagna vaccinale. Mi sono ritrovato a gestire la turnazione di tutti i colleghi della zona (anche 80) che avrebbero vaccinato all’HUB di Chiari.
All’inizio c’era scetticismo sull’attività vaccinale: era un vaccino nuovo, si parlava di rischi potenziali. Ma in pochi giorni, visti i risultati delle prime vaccinazioni, si è trasformato in entusiasmo: il medico di medicina generale, finalmente, tornava a collaborare con altre figure professionali in un ambiente comune.
I primi turni erano massacranti: tantissimi pazienti, decine e decine di spiegazioni tutte uguali per pazienti che, a volte, non erano particolarmente desiderosi di farsi vaccinare. Terminava poi il turno e tornava l’ora dell’attività ambulatoriale: era in corso un’altra ondata di Covid.
Ma l’organizzazione degli HUB (a Chiari tutto funzionava alla perfezione), i turni condivisi con il personale e con altri colleghi sia del territorio che ospedalieri, le pause caffè in gruppo hanno reso questo ulteriore lavoro un’occasione di socializzazione e di scambio che da tanto tempo non avevamo.
A seconda delle necessità coprivamo fino a 4 linee vaccinali su 10 totali per tutta la giornata, venivano inoculati più di 250 vaccini. Lo stesso accadeva negli altri centri.
E nonostante negli ambulatori i carichi di lavoro fossero estremi, anche nella campagna vaccinale la medicina generale ha dato il suo grande contributo.
A questo punto mi sono chiesto: Cosa mi ha insegnato questa pandemia?
Se dovesse succedere nuovamente ci troveremmo sicuramente più preparati: ci sono protocolli praticamente per tutte le situazioni.
Ma, specialmente sul territorio, c’è una falla che va assolutamente rimarginata: la medicina del territorio non ha ancora un’organizzazione tale per rendere la “prima linea” della guerra al Covid una condizione di piena sicurezza. Il medico è impegnato in attività burocratiche che troppo spesso distolgono dalla clinica. Le comunicazioni, come i mezzi informatici, sono ancora macchinose e troppo lente.
Oggi probabilmente è inevitabile, ma da domani è necessario creare un sistema efficiente con al centro la medicina generale.
Come? Maggiore organizzazione condivisa, più comunicazione con gli enti e le amministrazioni.
Comunicazione facilitata con i colleghi ospedalieri per creare percorsi condivisi. Creazione di reti effettive, non solo di facciata.
Riduzione (sono un sognatore e vorrei dire “abolizione”) della burocrazia, la vera nemica della reale presa in carico del paziente. Quella che toglie la risorsa più preziosa, il tempo della cura, e che spaventa e allontana le nuove generazioni di medici da quella che, a mio avviso, è la specialità più varia e completa.
Questo però passa dall’utilizzo di sistemi informatici semplici, completi ed efficienti; dalla possibilità di avere sufficiente personale di studio per tutti i medici; dal Task shifting: cioè la trasmissione delle competenze ad altre figure professionali. E, non ultimo, dal coinvolgimento di chi ha tutto l’interesse affinché tutto funzioni al meglio: il paziente.
Ma soprattutto è necessario che ci sia un coinvolgimento reale dei medici di medicina generale nelle scelte strategiche.
Io sono convinto che i tempi siano maturi, che la professione sia pronta per un cambio di marcia.
Non avete idea di quanto i miei colleghi, soprattutto le nuove leve, abbiano progetti estremamente moderni su come portare il medico di medicina generale (a me piace ancora chiamarlo di famiglia) ad essere davvero il gestore della salute della popolazione: la sfida che, nell’era delle patologie croniche (oltre che della pandemia), deve essere vinta perché è l’unica possibilità di mantenere vivo e sostenibile il nostro sistema sanitario.
Bravo Nicola. Bella testimonianza. Con spunti di riflessione e proposte per il futuro. Speriamo che qualcuno abbia la volontà di raccoglierle…