Sono entrato da poco al cimitero per la consueta visita ai miei genitori e nel vialetto, mentre mi avvicino alla navata dove sono sepolti, sento dietro a me i passi sulla ghiaia e un ripetersi ad alta voce “è lui, è lui?”.
Sento ripetere la domanda anche quando mi fermo davanti alla lapide di mia madre; ora è indubbio che la persona di cui si chiede sono io.
Mi giro e mi avvicino alla signora che riconosco e che a questo punto chiede se sono il dottore, il figlio di Rosi. All’affermazione positiva mi abbraccia con calore, quasi fossi suo figlio, e con poche e affettuose parole ricorda la bontà di mia madre e il dolore provato per la sua morte in giovane età, per “un brutto male, vero?”.
Le domando come sta, “così e così” risponde, “me scapa i morcc” (i miei morti scappano, non li trovo più).
Ha quasi novant’anni, più di sessant’anni fa, sua figlia di due anni cadendo nella roggia dietro casa era annegata. Tutti i giorni, da allora, viene al cimitero a pregare davanti alla lapide che fatica sempre più a trovare.
La bravissima nuora, che l’ha accompagnata e che si è appartata lasciandola sola con me, ora si riavvicina, mi saluta, scambia due parole e prendendola con dolcezza sotto braccio la porta alla tomba della figlioletta, distante pochi metri.
Arrivata, fa il segno della croce e toccando la ceramica della fotografia bisbiglia un “requiemeterna”.
Mi domando cosa significherà per lei questa progressiva e inesorabile incapacità di ricordare, un’aggiunta di dolore al dolore oppure la pietosa restituzione della pace persa sessant’anni fa?