Alberto Dalla Volta, giovane oncologo: “Contro la logica di spersonalizzazione della medicina porto nelle scuole la testimonianza di Alberto D.”
Può una storia innervata nelle lacerazioni del Novecento, nella tragedia della Shoah, con un epilogo consumato nel campo di Auschwitz, arrivare con il suo significato più profondo in un reparto di Oncologia del nuovo millennio? Portare un messaggio a chi sta resistendo contro un male diverso, ma pur sempre un male che può spersonalizzare. Che obbliga a misurarsi sul crinale tra la vita e la morte. Che impone una battaglia secondo la legge del più forte. Che muove a una ricerca di senso, proprio dove il senso non c’è.
Non sappiamo cosa avrebbe risposto Alberto D., “l’uomo forte e mite contro cui si spuntano le armi della notte”, secondo le parole di Primo Levi, che lo ha reso immortale nel suo capolavoro “Se questo è un uomo”, raccontando l’amicizia stretta con lui nel campo di sterminio di Auschwitz, da cui quest’ultimo non avrebbe fatto ritorno. Sappiamo però che la parabola umana di Alberto, la sua capacità di preoccuparsi dell’altro, di dosare intelligenza e istinto e di resistere a testa alta nell’orrore del lager ci lascia una potente testimonianza sul senso della cura. Affidando ai clinici – lui che non era medico – una lezione emblematica.
Una vicenda, quella di Alberto Dalla Volta, protetta per molti anni dal silenzioso riserbo della famiglia, fra le mura domestiche del civico 11 di piazza Vittoria. Fino a che non è arrivato un altro Alberto, che porta lo stesso nome e cognome del prozio, e che a partire dal 2008, quando era ancora studente del liceo Calini, ha scelto di riannodare i fili di questa storia. Lo ha fatto andando nelle scuole e nei quartieri per raccontare la Shoah, incoraggiando a tenere sempre alta la guardia, attraverso il profondo messaggio di umanità e di rigore morale impersonato dal suo prozio. Un impegno civile che prosegue tuttora, e che si intreccia con la vita di un reparto di Oncologia: quello degli Spedali Civili dove l’Alberto di oggi lavora come giovane medico oncologo, portando in sé il valore guida di una storia speciale.
Cosa ti ha spinto a diventare medico?
Non sono di quelli che hanno avuto la vocazione per la medicina fin dalla nascita. Ho sempre avuto una vocazione umanistica, l’idea è affiorata negli anni del liceo e si è poi consolidata: mi piaceva la prospettiva di coniugare realtà scientifica e umanistica, unendole al mio interesse per il rapporto con l’altro.
Perché l’oncologia?
Inizialmente ero orientato alla psichiatria, ma sono rimasto affascinato dalla biologia e biologia molecolare che mi hanno dato un imprinting già nel triennio preclinico, seguendo le lezioni del prof. Presta all’Università degli Studi di Brescia. Ho iniziato a frequentare l’Oncologia dell’ospedale Civile quando era appena arrivato l’attuale direttore, prof. Berruti, di cui sono stato il primo tesista interno. Ho iniziato la specialità a Verona per terminarla a Brescia, dove ho sempre avuto la libertà di frequentare e imparare, grazie anche a figure importanti come la dott.ssa Valcamonico e il dott. Rangoni. Penso che la presenza in corsia sia una scuola fondamentale per un giovane medico: prima di essere oncologi da scrivania, bisogna essere oncologi da reparto.
Al laboratorio che ti aveva inizialmente sedotto hai preferito la clinica.
In me è diventato prevalente l’interesse per il rapporto con il paziente e il percorso di cura. Questo non significa che in reparto non ci si possa impegnare anche nella ricerca, sotto forma di ricerca clinica: mi occupo di oncologia urologica e siamo riusciti ad attrarre importanti finanziamenti per studi sui tumori alla prostata.
La ricerca in laboratorio può essere affascinante, ma mai rinuncerei al rapporto con il paziente. Certo come in tutte le relazioni ci sono alti e bassi, ma le soddisfazioni superano questi piccoli inciampi.
Il rapporto con i pazienti, in un ambito delicato come quello oncologico, comporta un carico psicologico pesante. Come riesci a gestire il coinvolgimento e il necessario distacco?
Questi carichi emotivi per me sono più una spinta e una motivazione al lavoro che non un freno. Sono altre le cose che mi schiacciano: la burocrazia, la scarsa linearità nelle procedure, la necessità di occuparsi di aspetti organizzativi non di pertinenza medica, e senza strumenti adeguati.
Forse anche grazie al mio lato caratteriale riesco a mettere un filtro tra la mia vita personale e quella lavorativa, e in questo mi hanno aiutato molto i primi anni a Verona e in reparto. Porto sempre con me l’insegnamento della dott.ssa Sabbioni, oncologa palliativista: “Mettersi nei panni di” ma non “identificarsi con”. Non è detto che tu sia un medico migliore se vivi quello che sta vivendo il malato. L’attenzione, prima di tutto, va rivolta a non illudere il paziente: nei casi in cui la guarigione non è perseguibile, comunicare che il percorso di cura si inserisce in una prospettiva di cronicità è indispensabile. Non crudezza ma chiarezza.
Il tema del “breaking bad news”, della comunicazione della diagnosi è centrale ma è anche un problema complesso…
Ci sono corsi con psicologi che insegnano la comunicazione, credo però che ciò che fa la differenza sia l’esperienza, e la possibilità di rubare il mestiere a chi lo sa fare bene. E’ così che si imparano strategie su cosa comunicare e cosa no, si presta attenzione al linguaggio non verbale, che spesso vale di più, si capisce come far sentire “accudito” il paziente, che è in fondo l’obiettivo più importante. Esistono diverse filosofie nel comunicare la diagnosi, quella anglosassone è più diretta, può portare a quantificare anche la sopravvivenza attesa, con il rischio di sbagliare. Io penso che bisogna comunicare i concetti fondamentali, e non i numeri, che saranno sempre errati.
L’oncologia è fra le specialità che hanno evidenziato l’importanza delle riunioni di gruppo per discutere i casi in un’ottica multidisciplinare. Com’è il rapporto con gli altri reparti?
Esiste un progetto di Cancer center per l’organizzazione di gruppi di patologia, e questo sarebbe un bene perché gli attuali percorsi multidisciplinari andrebbero migliorati e resi più capillari e fluidi: quello che deve guidare è il paziente, non la divisione tra reparti e specialità. Tra l’altro le discussioni multidisciplinari non sono ancora formalmente contabilizzate, pur assicurando una validità più forte alle decisioni prese, anche dal punto di vista medico-legale.
Anche i percorsi per consulenze ed esami urgenti potrebbero essere meglio codificati, spesso si procede ancora chiedendo un favore a colleghi che conosci. Nonostante tutto, però, il senso di appartenenza all’ospedale Civile è ancora forte, e resiste una propensione a spendersi per aiutare l’altro. Ho scelto di lavorare qui, e se dovessi pensare a un posto dove lavorare sceglierei sempre questo.
Quanto conta l’interesse per l’aspetto palliativo?
La forte tradizione di medicina palliativa che ho respirato fin dai miei inizi in reparto a Verona mi ha insegnato molto. A Brescia il rapporto con le strutture dedicate alla palliazione funziona molto bene, abbiamo un canale aperto con l’Hospice della Domus, la possibilità di spostare il malato che ne ha necessità facilita la qualità del fine vita. Anche all’interno del Civile si è creata una Unità di Cure Palliative Domiciliari (UCP-Dom) che funziona molto bene.
Meno buono il rapporto con altre strutture Hospice della provincia, mi riferisco a quelle più chiuse alla possibilità di fornire assistenza ai pazienti ancora in terapia attiva. Dimenticando che la letteratura scientifica ha confermato l’utilità delle “cure simultanee”, con l’introduzione di terapie di supporto già in corso di terapia: l’attenzione al sintomo agisce sulla sopravvivenza, che si allunga rispetto alla terapia standard.
Al lavoro di medico affianchi l’impegno civile di testimonianza sulla Shoah, attraverso la riscoperta della figura del prozio, di cui porti il nome. Come è iniziata?
Prima è arrivata la chiamata dello storico Marino Ruzzenenti, che nel 2006 ha dato alle stampe il volume “La capitale della Rsi e la Shoah”, poi nel 2008 l’inaugurazione al mio prozio dell’aula magna del Calini, dove aveva studiato Alberto e dove studiavo io che rappresento la terza generazione. Una miccia esplosiva che mi ha portato a condividere una storia fino ad allora custodita gelosamente in famiglia. Del resto la Giornata della Memoria è stata istituita solo nel 2005, e se penso a quanto silenzio c’è stato, motivato anche dalla resistenza delle famiglie delle vittime a parlarne, credo sia giunto il momento di porre rimedio.
Alberto D. viene deportato a 22 anni, tu parli a ragazzi di 16-18 anni messi al cospetto con la storia di un loro quasi coetaneo. Com’è l’accoglienza delle classi?
Penso che le “microstorie”, le storie personali possano essere un modo per togliere l’inevitabile spersonalizzazione della Storia con la maiuscola. Agli studenti spiego che questa vicenda ha coinvolto “persone comuni, che potreste essere voi”. Li invito a riscoprire la storia della loro famiglia. La loro attenzione mi stupisce sempre, mi fanno domande profonde sul senso della memoria per i sopravvissuti, il significato della perdita, del perdono, la responsabilità di quanto accaduto. Ad Auschwitz non sono mai stato, vorrei ci fosse l’occasione per andarci con la mia famiglia. Ma quando varco le porte di una classe ci credo sempre, lo considero un dovere.
Abbiamo visto No vax manifestare con la stella gialla, accostando vaccino e deportazioni. Si assiste alla riemersione di frange antisioniste e di episodi di discriminazione contro gli ebrei. L’antisemitismo in Italia è un problema?
L’antisemitismo è come una brace coperta: è difficile eradicarlo del tutto, c’è sempre una “malattia minima residua” per usare un paragone medico, che riemerge quando la coscienza civica si appanna. Molto spesso gli atti di odio contro gli ebrei sono giustificati da un odio contro Israele: bisognerebbe approfondire dove sia diretta questa critica e chi la appoggia, ma soprattutto investire in comunicazione per avvicinare posizioni oggi molto radicalizzate.
Nel tuo intervento all’assemblea dell’Ordine nel 2019 hai messo in guardia sul rischio di una medicina spersonalizzata, rilanciando la lezione di resistenza e dirittura morale impartita da Alberto D. in “Se questo è un uomo”.
E’ una riflessione necessaria sulla nostra professione, per scongiurare il rischio di una logica sottile di “disumanizzazione”. Penso che i medici non potranno essere sostituiti dalle intelligenze artificiali, a patto che si continui a coltivare l’umanesimo che connota l’arte medica, quella relazione col malato che fa del “medico prima medicina”. Nonostante le difficoltà e gli inceppi del sistema, saper guardare all’unicità del rapporto col paziente che abbiamo davanti. Buttare sempre il cuore oltre l’ostacolo.
Come lo buttò, nel 1943, il tuo prozio all’ingresso nel lager. “Non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri. Lotta per la sua vita eppure è amico di tutti – così lo descrive Levi – Sa chi bisogna evitare, a chi si deve resistere. Eppure non è diventato un tristo”. Una lezione che ci illumina ancora.
Credo che l’insegnamento morale più forte sia quello di non lasciarsi intrappolare dalle circostanze. Non è qualcosa di astratto, vale anche per noi, ogni giorno, nella nostra professione: sfuggire alla tentazione delle lamentele che non ci fanno crescere, aver presente l’obiettivo senza scoraggiarsi, non chiudere gli occhi. Alberto ha cercato di vivere libero, nonostante fosse in catene. E’ stato capace di gesti di solidarietà in una situazione estrema, dominata dalla legge del più forte e da un deliberato disegno di eliminazione sotto il profilo umano prima ancora che fisico, perseguito attraverso condizioni terribili,volte a far emergere la parte più animalesca ed egoista di ogni individuo. Lui non ha ceduto a questa logica di spersonalizzazione, conservando l’umanità e la dignità. Lui si è sottratto. Così brilla.
Grazie dr Alberto Dalla Volta! Non conoscevo la storia del suo prozio … e l’ho letta ora. Penso al valore dell’esempio e della testimonianza, e Lei li incarna entrambi… e quanto è importante la fiducia in un senso profondo nel nostro campo. E grazie al Direttore .. abbiamo bisogno di storie vere che dicano il bene.