Al quinto anno di università, durante la frequenza del reparto di II Medicina, decisi di fare il medico di famiglia. Allora immaginavo possibile l’integrazione tra ospedale e territorio (dove lavoravano anche alcuni dei medici strutturati) e verificavo una positiva considerazione per la medicina generale. Apprezzavo l’idea del rapporto continuativo con i pazienti, della medicina della persona, della piena responsabilità di conduzione di un percorso sanitario, della flessibilità organizzativa a seconda delle esigenze. Sono passati 30 anni e non tutti i sogni si sono avverati.
La medicina territoriale è da sempre una meravigliosa incompiuta e la pandemia ne ha esasperato la disomogeneità e lo scollamento da quella ospedaliera. Quando firmai la convenzione si discuteva della necessità di integrazione tra ospedale e territorio e oggi, a differenza del passato, c’è la disponibilità dei finanziamenti del PNRR che obbligano le regioni a riformare i propri servizi sanitari.
La creazione dei Distretti Socio-Sanitari e delle Case della Comunità è un fatto positivo purché si preveda un’integrazione con la rete degli studi professionali già esistenti, se invece diventerà l’unica possibilità di assistenza eliminando di fatto la capillarità diffusa e il rapporto di fiducia che gli ambulatori periferici garantiscono, allora il giudizio non può che essere negativo. Una scelta condivisibile appare invece l’unica regia organizzativa, sia per la medicina di famiglia che per la specialistica territoriale con stretta integrazione dei servizi sociali.
Ogni riforma sanitaria è complessa poiché entrano in gioco molte variabili imprevedibili e deve rispondere soprattutto ai bisogni dei cittadini, ma vanno considerate anche le esigenze dei professionisti coinvolti. Quando questo non avviene c’è il rischio di creare una scatola accattivante, ma vuota di contenuti. Per riempirla vanno chiariti e definiti gli obiettivi: i mattoni da soli non bastano a costruire la medicina territoriale.
Sullo sfondo poi c’è il nodo del futuro rapporto contrattuale per i medici di famiglia. Tra le ipotesi proposte dalle Regioni c’è anche la dipendenza che a mio parere mina il rapporto fiduciario oltre a non essere sostenibile economicamente. Credo che la definizione degli obiettivi e della valutazione dei risultati sia più importante della tipologia del contratto che appare essere più ideologica che utile.
La pandemia ha imposto il cambiamento e l’occasione va sfruttata, ma il decisore politico deve considerare le richieste provenienti da chi sul territorio lavora quotidianamente e ad oggi non si percepisce tale considerazione.
La medicina generale ha chiari i concetti da sviluppare per essere cerniera utile tra il cittadino e l’assistenza di secondo livello e per la sua presa in carico.
Questa riforma nelle case della comunità dovrebbe:
- garantire un approccio multidimensionale e multiprofessionale al paziente, ma sembra dimenticare la capillarità già esistente degli studi medici;
- implementare la digitalizzazione che deve essere semplice e fruibile, ma le continue carenze del sistema SISS più volte denunciate non sono mai state sanate;
- attuare una vera integrazione con il sociale coinvolgendo gli enti locali che tuttavia non sono stati ancora interpellati;
- dare consapevolezza culturale e professionale in un’ottica di “accountability”, ma finora non sembra presente un cambio di passo sulla valutazione che a mio modo di vedere va fatta sulla qualità erogata e non più sulla quantità;
- dare un chiaro mandato pubblico nella gestione dei distretti, ma Regione Lombardia da sempre vede nel privato accreditato una risorsa sussidiaria.
Ritengo che sul territorio una logica competitiva comporti una perdita di omogeneità erogativa e di capillarità a causa di un’economia di scala magari esasperata.
La medicina generale vuole essere propositiva, come sempre, ma è stanca di subire modifiche importanti del proprio lavoro senza condivisione e con il rischio di diventare facile capro espiatorio se le cose andassero male. Il tempo degli alibi per tutti gli attori della partita territoriale è finito, ce lo chiedono i cittadini. La medicina generale può e deve produrre risultati di salute e sono convinto che la nostra provincia parta da una buona base e da una disponibilità sempre dimostrata, ma la parte pubblica dovrà ascoltarci, altrimenti il rischio di avere sprecato una grande occasione sarà realtà.