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Notiziario dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Brescia – aut. Tribunale di Brescia n. 195/1962

La parola è un farmaco

Fausto Manara, Campagna francese – Nostalgia delle origini, Fotopittura Stampa fotografica a pigmenti

Psichiatra e psicoterapeuta, innovatore nelle cure per i disturbi del comportamento alimentare, Fausto Manara analizza il malessere di un presente inquieto. «Il punto vero è la difficoltà ad avere consapevolezza di chi siamo e quanto valiamo».

Intervista a cura di Gianpaolo Balestrieri e Lisa Cesco

Ci vuole un fine analista dell’animo umano per decifrare quello che sta accadendo. “Andrà tutto bene” era scritto sui lenzuoli esposti nei mesi più tragici della pandemia, quel marzo e aprile 2020 difficili da dimenticare. Un arcobaleno di colori per esorcizzare il contagio. A distanza di due anni sappiamo che non è andato tutto bene, e che probabilmente non ne siamo usciti migliori. Covid-19 ci ha lasciato segnati, nel corpo e nello spirito. Esacerbando ansia, stress, disagio psichico, che si aggiungono alla solitudine e alla perdita di punti di riferimento del nostro presente. Ne abbiamo parlato con Fausto Manara – psichiatra e psicoterapeuta, sessuologo clinico, innovatore nelle cure per i disturbi del comportamento alimentare – provando a intrecciare la sua storia con l’analisi del malessere contemporaneo. Perchè “una via d’uscita c’è sempre – assicura – E se ci sentiamo all’angolo, spesso è per la paura di percorrere una strada diversa”.

Professor Manara, i disturbi del comportamento alimentare sono aumentati di quasi il 40% rispetto al 2019, secondo gli ultimi report, e ci riconsegnano una generazione fragile, sperduta. Cosa sta succedendo?

Il lockdown ha aggravato significativamente problematiche già esistenti e portato all’esordio di nuovi casi, con un aumento in particolare dei disturbi di area bulimica. La mancata relazione con i coetanei, l’imposizione della Dad, il controllo delle famiglie, le assenze emotive o al contrario l’eccesso di presenza, nel chiuso di una casa hanno innescato una miscela esplosiva.

Da un lato il lockdown ha peggiorato la strutturazione dell’autostima, facendo venire meno i rinforzi esterni e il sostegno degli amici. Dall’altro i social, che amplificano le pratiche imitative e gli scambi con persone che raccontano come rimanere in equilibrio su un peso bassissimo, e sono stati un elemento dannosissimo nell’aumento di questi disturbi.

Sono sempre più diffuse le campagne contro il body shaming e quelle anti-anoressia lanciate dalle case di moda…

Sono tentativi più teorici che di reale impatto, perché la percezione dell’immagine del corpo femminile è rimasta ancora molto indietro, e non a caso le pubblicità della moda scelgono sempre figure dai corpi filiformi. Siamo ancora a quei modelli, a quella che io chiamo la “sindrome di piazza Arnaldo”, dove il sabato sera tutti devono andare a mostrare qualcosa di eclatante di sé stessi, presentandosi in un certo modo sia nell’abbigliamento che nel fisico: i ragazzi con le auto di grossa cilindrata, anche a costo di prenderle a nolo, le ragazze come se fossero vestite per andare ad Arcore.

Sei stato un precursore, fondando nel 1987 il Centro per la Cura dei Disturbi Alimentari degli Spedali Civili di Brescia, che hai guidato per 23 anni, e contribuendo a dar vita alla Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare, che hai presieduto. Da dove è nata quella intuizione?

L’anoressia e i disturbi alimentari rappresentano un mondo composito, in cui entrano in gioco la relazione con l’ambiente, con la cultura e la famiglia. Un mondo che mi ha affascinato, anche alla luce delle mie origini come psicosomatista, interessato all’indagine di un rapporto profondo come quello tra mente e corpo.

Quello di Brescia è stato il primo centro pubblico in Italia per la cura di questi disturbi (allora erano pochissime le realtà che se ne occupavano). Ma farlo partire non è stato per niente facile, ho incontrato ostacoli di natura politica e accademica, e se il centro esiste lo devo a Mino Martinazzoli, conosciuto sui banchi del Consiglio comunale di Brescia, ai tempi della mia esperienza politica con una lista civica legata a Rifondazione comunista. Martinazzoli era una persona aperta, straordinaria, io seguivo le pazienti in un Day Hospital “non ufficializzato” al Ronchettino, serviva una delibera formale che non arrivava mai. Grazie al suo provvidenziale intervento dopo mezz’ora la delibera era pronta, e abbiamo potuto partire.

Brescia è diventata un modello per la cura di anoressia e bulimia.

Sì, anche se il centro ha sempre camminato su un filo sottile, mai riconosciuto come Struttura complessa, sempre a confronto con incognite sul versante economico: questo tipo di degenze, infatti, hanno costi alti ma rimborsi esigui per l’ospedale, considerato che molti ricoveri durano in media 4-6 mesi. In questo percorso ho avuto il privilegio di lavorare con un gruppo di persone molto motivate, e i risultati ottenuti sono stati straordinari, con buonissimi compensi nell’80% delle pazienti curate. Tanto che l’allora ministro della Salute, Livia Turco, mi nominò consulente del Consiglio Superiore di Sanità per l’area nutrizionale: fu un segno di riconoscimento importante della nostra struttura.

Hai dato molto alla psichiatria ma in realtà nasci come neurologo. Com’è andata?

Dopo la specializzazione in Neurologia ho lavorato per quattro anni al Centro per la Sclerosi Multipla dell’ospedale di Gallarate. Il professor Cazzullo, “direttore-ombra” del reparto, un giorno ci disse che bisognava fare psicoterapia ai malati, e la scelta cadde su di me, che come gli altri non avevo competenze in questa materia. «Attrezzati» mi disse il prof. E così mi attrezzai, iniziando ad andare in supervisione dei gruppi e a prepararmi. La cosa è andata avanti, e ad un certo punto mi sono appassionato di questo mondo che conoscevo poco. La scelta di specializzarmi in Psichiatria, e poi i ruoli di assistente e di ricercatore a Milano sono stati una conseguenza naturale, insieme al percorso di analisi intrapreso con il dottor Luigi Pagliarani, uomo coltissimo che considero un mentore. Nel 1982 sono venuto a Brescia, con la nascita dell’Università e l’arrivo del prof. Ermentini. E’ da allora che ho incominciato a occuparmi di disturbi alimentari.

Sei autore di libri divulgativi di successo, dedicati ad aspetti non comuni come la timidezza, la dolcezza, la solitudine. C’è un fil rouge che lega questi temi?

Il filo che tiene unito tutto è il tentativo di dare valore a quelli che vengono considerati sentimenti deboli, come la timidezza, la dolcezza. Il punto di partenza è stato uno dei miei primi libri, Scegliamoci il destino, in cui riflettevo sul fatto che l’indirizzo impresso alla nostra esistenza lo scegliamo noi, ad esempio adottando uno stile di vita che ci può salvaguardare oppure no, o perché abbiamo la capacità di non sentirci costretti in un angolo quando ci sembra di non avere una via d’uscita. Perché una via d’uscita c’è sempre, e se non la troviamo è perché abbiamo paura di prendere una strada diversa.

Per questo ho cercato di mettere in evidenza come la dolcezza possa avere valore, essere un elemento di forza. Come la timidezza sia un sentimento universale, perché tutti abbiamo qualche dubbio su noi stessi, qualche piccola, grande esitazione nel proporci agli altri, tutti indossiamo qualche maschera, in un contesto che ci impone di essere sempre tonici e al passo con le situazioni, camuffandoci in rapporto alle circostanze e agli altri che abbiamo davanti.

Un’autenticità della persona che oggi sembra smarrita…

Io dico spesso che non faccio lo psichiatra, faccio l’ottico. Perché cerco di dare alle persone le lenti giuste per guardare sé stesse nel modo corretto. Se noi avessimo la cura di considerare quello che abbiamo – pregi e difetti – come il nostro patrimonio, come la nostra cifra, il nostro impasto unico e irripetibile, andremmo dovunque senza la minima esitazione e non esisterebbero ansia, depressione, attacchi di panico. Ne vedo e ne curo tantissimi. Ma una volta che il paziente riesce a mettere a fuoco che l’attacco di panico è una patologia della libertà (che sia una relazione di coppia che ci imprigiona, un lavoro o un rapporto famigliare da cui ci sentiamo schiacciati), e quanto sia necessario riprendere il possesso di questa libertà, non ha davvero più bisogno neanche del serotoninergico come aiuto, o dei farmaci impiegati per mitigare l’attacco quando compare.

Il punto vero è la difficoltà ad avere consapevolezza di chi siamo e quanto valiamo, soprattutto nella nostra società. Non ci capita di avere la sufficiente benevolenza tanto verso noi stessi quanto verso gli altri. E quanto più hai paura di non avere risorse sufficienti per te, tanto meno sei disponibile a mettere le tue risorse a disposizione di qualcun altro, se non nei momenti in cui domina l’enfasi dell’accoglienza e del buonismo.

Anche il rapporto di coppia sconta questa mancanza di autenticità. Sei stato presidente della Società Italiana per Ricerca e la Formazione in Sessuologia e ti dedichi tuttora a queste problematiche. Come interpreti la crisi della relazione a due?

Che il lockdown non abbia favorito le coppie è un dato di fatto, perché ha fatto emergere tensioni e contraddizioni. C’è però un problema di fondo difficile da risolvere, ed è il problema dei ruoli, maschio e femmina. Dagli anni ’60, con quella che reputo la più grande rivoluzione della storia, l’invenzione della pillola anticoncezionale, le donne hanno fatto un sacco di progressi, si sono emancipate, e gli uomini questo l’hanno in qualche modo subito. Perché il desiderio di gran parte dei maschi che le donne stiano a casa, e che siano loro i portatori del sostentamento e della cifra famigliare, è ancora radicato.

L’ostacolo più difficile da superare?

Sono convinto sia la difficoltà a capirsi, non perché entrambi debbano parlare la stessa lingua, ma perché uno capisca la lingua dell’altro.

Ci sono molte coppie in stallo perché tutti e due hanno la medesima aspettativa: avere un segnale di attenzione, di riconoscimento da parte dell’altro. Se non arriva, dall’altra parte scatta un arroccamento e tutto si avvita, incominciano discussioni su cose banali che non c’entrano niente, e che portano ad esasperare i rapporti. Questo è l’elemento più complicante la vita delle coppie, anche se la coppia di per sé è un mondo complicatissimo, perché ci sono due storie che vanno insieme, ciascuna segnata da qualche inciampo nel passato, e si spera che nella vita di coppia questo sia messo a posto. Spesso non si riesce a mettere a fuoco che certi comportamenti banali dell’altro, che ci fanno saltare per aria, non dipendono da quello che sta succedendo lì in quel momento, ma da ciò che fa risuonare in noi del nostro passato. Certe disattenzioni subite nel passato non sono tollerabili oggi, perché ci riportano alla mente quei dolori provati allora.

C’è un altro rapporto che è andato in crisi, quello tra medico e paziente. Il tempo disponibile è sempre meno e avanza una medicina più centrata sulle malattie, che rischia di trascurare il paziente nella sua interezza di persona.

Quando insegnavo psicosomatica si parlava molto di rapporto medico paziente. Avevo organizzato anche i gruppi Balint per la formazione psicologica dei medici, si approfondiva il loro coinvolgimento nei singoli casi clinici ed era stato un lavoro fruttuoso, proposto anche agli infermieri. Il problema è che da allora – erano gli anni Novanta – la formazione in Medicina è diventata sempre più iperspecialistica. Ne è emblema l’introduzione, durante il corso di laurea, di “micro specialità” preparate in modo disgiunto l’una dall’altra, così uno stesso corso integrato viene spezzettato in molti insegnamenti. Questa iperspecializzazione che viene suggerita già nel percorso formativo non permette al futuro medico di crescere con l’idea di un tutto, che c’è un corpo e c’è un’anima, un vissuto, una sofferenza e che le tue parole spesso sono utili quanto un farmaco per aiutare ad alleviare questa sofferenza. Penso che questo sia un buco enorme nella formazione medica di oggi, dove l’accenno alla relazione col paziente non c’è.

Rischi e possibili correttivi?

Questa incomunicabilità rischia di generare un braccio di ferro medico-paziente, perché il paziente va su Google, vuole saperne di più, si informa, legge, e il medico per sopravanzarlo e dimostrare la sua conoscenza può essere spinto a prospettare diagnosi e prognosi senza la necessaria cautela.

Poi dipende molto dalla sensibilità umana individuale e dalla natura del medico che hai davanti. Ma non è irrilevante il tipo di formazione proposto, senza che questo elemento relazionale venga preso in una considerazione almeno ragionevole.

Questi atteggiamenti di disinteresse o lontananza dai problemi emotivi dei pazienti purtroppo in corsia li vedi, e ricadono a cascata, come insegnamento implicito, nei reparti e nei gruppi di lavoro. Davanti a una medicina sempre più spezzettata e iperspecialistica, penso che perlomeno questo tipo di formazione andrebbe fatta in modo diffuso con i medici di base, come si faceva una volta con i gruppi Balint, magari attraverso corsi Ecm centrati sul rapporto medico-paziente: sarebbero qualcosa di utile per la professione e per i pazienti.

Negli ultimi anni ti sei dedicato anche alle arti visive, con composizioni foto-pittoriche che decostruiscono l’immagine fotografica per farne emergere significati profondi. Hai esposto in tutta Italia e all’estero. Cosa ti ha spinto verso questa dimensione creativa?

E’ una storia bizzarra perché io non so tirare una riga a mano. Una quindicina di anni fa, utilizzando Photoshop, ho trovato una funzione che muovendo il mouse mi consentiva di muovere i colori, e ho incominciato a modificare le figure delle fotografie per fare qualcosa che avesse anche un senso pittorico. In questo ho visto la metafora della disinformazione: la foto originale non si riconosce più, nessuno saprà mai qual è, nessuno saprà mai la verità, che è un po’ quello che succede quando leggiamo il giornale. Conosciamo quello che ci viene esposto ma non sappiamo la verità piena dei fatti. In questo percorso ho trovato per strada Philippe Daverio, che è stato il mio più grande ammiratore, tant’è che avremmo dovuto fare una mostra a casa sua l’anno in cui è morto, il 2020: doveva chiamarsi Idoli arcani. Da quando è morto Philippe non ho più fatto un quadro, perché mi è passata la voglia.

Però sei tornato alla scrittura: uscirà a settembre per i tipi di Piemme – Gruppo Mondadori il tuo primo giallo, intitolato L’inconsapevole.

E’ la storia di una ragazza anoressica che si suicida buttandosi dall’ottavo piano dell’ospedale, e il suo vecchio psichiatra che l’aveva avuta in cura fino a due anni prima resta colpito, non gli torna che possa essersi suicidata e allora comincia a fare l’investigatore. Si scopriranno tante cose che non possono essere svelate.

Eppure oggi le scuole di specialità in Psichiatria non primeggiano fra le scelte dei giovani medici…

Io sono convinto che questo dipenda anche dal fatto che la psichiatria sta diventando prevalentemente biologica. Tutto il versante psicoterapeutico e del rapporto con il paziente sembra lasciato in secondo piano. Sottovalutando qualcosa di importante, che sappiamo da sempre: quanto più tu prescrivi un farmaco all’interno di una relazione in cui il paziente sente di essere ascoltato e capito, tanto più il farmaco darà pochi effetti collaterali e funzionerà a dovere. La psichiatria si è spostata molto sul versante farmacologico. Ma così si perde il bello della professione.

Qual è il bello del tuo lavoro?

Il bello di fare il mio mestiere è chiedermi sempre: perché succede questa cosa a questo signore in questo momento della sua vita? E qui comincia il percorso. Se non ti chiedi il perché e gli vuoi dare una risposta senza capirne i motivi, è meno bello.

Consigli per un giovane medico: cosa ti sentiresti di dire a chi si affaccia alla professione?

Di ricordarsi, quando è di fronte a un paziente, quello che diceva Freud: che occorre rispettare i tre tempi. Di ascoltare, capire, rispondere. Il problema è che spesso si ascolta poco e si risponde, e non si capisce tutto.

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