La Geriatria come cura della persona, oltre la malattia: intervista a Gianni Guerrini
Le scelte fuori dall’ordinario sono sempre state la sua specialità. Forse perché fin dall’inizio ha preferito solcare territori non ancora conosciuti, piuttosto che adagiarsi su cammini già battuti.
C’è anche una buona dose di serendipity, la capacità di fare per caso scoperte inattese e appaganti, nel percorso di Gianbattista Guerrini, oggi medico della Fondazione Brescia Solidale che gestisce le Rsa del Comune di Brescia. Nella sua lunga carriera, che lo ha portato a ricoprire il ruolo di direttore generale e sanitario della Fondazione, ha contribuito a far “nascere” la geriatria a Brescia. Una specialità rimasta per sua natura lontana dall’approccio iper-tecnologico – e talvolta spersonalizzante – della medicina. “La tecnologia che utilizziamo sono le nostre mani, la parola, il corpo. Non abbiamo nient’altro da mettere in campo”, si schermisce lui, sapendo che quel niente è tutto se si vuole curare la persona, oltre la malattia. Qui ci racconta come tutto è incominciato.
Partiamo dall’inizio, dalla tua formazione.
Mi sono iscritto a Medicina all’Università Cattolica di Roma. Non era una scelta comune allora, devo dire che è avvenuto assolutamente per caso. Stavo valutando di iscrivermi a Pavia o Padova, quando lessi della facoltà di Roma, che aveva aperto da un paio d’anni: c’era il numero chiuso ed era agganciata ad un ospedale di riferimento come il Gemelli. Ho scelto d’istinto, e mi è andata bene.
Ci racconti il primo approdo in corsia, l’approccio con la clinica?
Dal quinto anno, pur continuando a dare gli esami nella capitale, ho avuto l’occasione di frequentare la Terza Medicina del Civile di Brescia, dove era arrivato da poco Ernesto Bonera come facente funzione. Ricordo la sua cultura enciclopedica, il suo rigoroso metodo clinico, la sua vorace curiosità: da lui per la prima volta ho sentito parlare, ai primi anni ’70, di psicosomatica. Aveva interessi vastissimi, le visite non duravano mai meno di 30-45 minuti, si incominciava dai sintomi per poi valutare tutto il resto: il metodo l’ho imparato lì. La Cattolica era pensata come un Campus dove c’erano molte possibilità di apprendere, ma l’esperienza pratica al Civile è valsa tre volte tanto.
Anche per questo ti sei speso perché l’ospedale Civile cittadino avesse una Geriatria. Una battaglia di idee da portare avanti comunque, nonostante la tua voce sia rimasta al momento inascoltata?
È da trent’anni che insisto sulla necessità di una Geriatria nell’ospedale della città, importante non solo per assicurare un’assistenza più adeguata agli anziani fragili, ma anche per formare i geriatri di domani. Il Civile è una struttura universitaria, ma per imparare la geriatria i medici devono poter fare pratica in un reparto dedicato. Se vogliamo valorizzare la cultura dell’assistenza all’anziano è necessario che ci siano persone preparate che la diffondano a diversi livelli: un 85-90enne fragile ha bisogno di un approccio diverso rispetto ai pazienti delle altre età, e i reparti chirurgici e ortopedici, così come il Pronto soccorso, hanno ancora più bisogno di una presenza geriatrica.
Che impatto ha avuto il Covid sui servizi per anziani e come prepararsi al futuro?
La pandemia ha dimostrato, credo in maniera incontrovertibile, la penalizzazione nella nostra Regione dei servizi territoriali, e la mancanza di un modello di servizi domiciliari che affianchi il medico di medicina generale nella presa in carico globale e continuativa delle persone più fragili. Purtroppo, l’atto d’intesa tra Governo e Regioni sui servizi domiciliari sembra riprodurre gli stessi limiti, privilegiando un modello lombardo di tipo prestazionale, che è l’esatto contrario di ciò che servirebbe. Negli ultimi anni i servizi di assistenza domiciliare integrata (ADI) delle ASL/ASST, hanno visto crescere il numero di anziani seguiti, anche se scontano il limite di un’intensità molto scarsa e di una bassa continuità. Al contrario è andato riducendosi il numero di utenti dei SAD, i servizi di assistenza domiciliare gestiti dai Comuni: e la percentuale di persone anziane assistite in modo integrato dai due servizi è davvero minima. Ora il Pnrr destina molte risorse per potenziare l’assistenza sanitaria domiciliare e molto poche per gli interventi socio-assistenziali. Resta il fatto che davanti a bisogni multidimensionali è necessario un intervento integrato, con un’interfaccia costante tra i diversi enti erogatori, che siano Comune o Asst.
Quanto alle Rsa, la pandemia ha dimostrato che sono state troppo a lungo abbandonate: negli ultimi due decenni, mentre i bisogni aumentavano, i trasferimenti economici sono rimasti fermi, obbligando le RSA a ridurre i livelli assistenziali, anziché aumentarli come sarebbe stato necessario, per contenere gli aumenti delle rette a carico degli utenti.
Una conseguenza indiretta – e per noi drammatica – della pandemia e della peraltro sacrosanta ripresa delle assunzioni da parte delle strutture ospedaliere (nonché dell’ampliamento dei posti nelle scuole di specializzazione) è la fuga del personale medico e infermieristico dalle RSA a presidi che offrono loro, tra l’altro, anche condizioni contrattuali più adeguate.
Monsignor Paglia, presidente della Commissione per la riforma dell’assistenza per la popolazione anziana istituita dal Ministero della Salute, ha dichiarato che oggi l’assistenza è monopolio delle Rsa e che bisogna aiutare gli anziani a rimanere a casa. Cosa ne pensi?
Sono pienamente d’accordo con lui sulla necessità di potenziare gli interventi a domicilio, molto meno quando sembra puntare alla scomparsa delle RSA. Ho paura che non conosca bene gli attuali ospiti delle nostre strutture. Che un anziano con demenza possa vivere da solo è difficile da immaginare. Poi è vero che il modello della Rsa va arricchito sia con requisiti strutturali ed organizzativi più rispettosi dei bisogni degli ospiti che con proposte residenziali alternative, ad esempio gli alloggi protetti o le comunità residenziali che assicurino un maggior livello di protezione agli anziani che possono rimanere a casa, grazie all’integrazione con la rete dei servizi: questa è la direzione in cui si deve andare.
Che consigli daresti a un giovane medico che sta cercando la sua strada?
Innanzitutto, va sfatata l’idea che se lavori in Rsa non hai uno sguardo al di fuori del contesto residenziale. I Centri diurni integrati, la Rsa aperta, l’assistenza domiciliare o i centri multiservizio che molte Rsa hanno attivato restituiscono un contatto importante con la realtà esterna, che forse gli ambiti tecnologici più avanzati non conoscono. Un secondo dubbio da contrastare è l’idea che la geriatria, soprattutto nelle RSA, resti ai margini dell’impetuoso progresso tecnologico. Personalmente non mi sento orfano della tecnologia: la nostra tecnologia, oltre all’approccio globale e alla valutazione multidimensionale, sono le mani, il corpo, la parola. E proprio nella relazione con le persone, nel colloquio quotidiano con loro, al di là delle limitazioni sensoriali, motorie e cognitive, troviamo il senso ed insieme la gratificazione per il nostro impegno. Spesso, è vero, nella nostra attività le gratificazioni te le devi andare a cercare, trovandole nei “piccoli guadagni” a livello funzionale, clinico, relazionale. Ma a guardare bene, i nostri ricoverati ti restituiscono molto di più di quello che puoi aver dato loro. E per questo non smetterò mai di ritenermi fortunato per aver prima incontrato e poi scelto la geriatria e questo lavoro con i più fragili tra i fragili.