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Notiziario dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Brescia – aut. Tribunale di Brescia n. 195/1962

Lascio tutto per ritrovare il piacere di fare ricerca

da sinistra Laura Andreoli con i prof. Tincani e Franceschini

Laura Andreoli, medico reumatologo e professore universitario, racconta la scelta controcorrente di un anno sabbatico, che muove da un vissuto comune a molti medici, tra burn-out e lotta per l’equità di genere.

Una carriera in ascesa, assaporata in ogni suo momento: dagli studi di Medicina alla passione per la ricerca che l’ha portata a diventare professore associato a 39 anni. Dall’interesse sviluppato per l’attività clinica al rapporto didattico appagante con studenti e specializzandi. Nella storia di Laura Andreoli, professore associato di Reumatologia all’Università degli Studi di Brescia e dirigente medico di Reumatologia e Immunologia Clinica agli Spedali Civili, sono racchiuse tre vite in una: medico, docente e ricercatore. Insieme a una quarta, la più importante: quella di mamma. Un equilibrio fragile e complesso, tenuto in piedi da una ferrea forza di volontà.

Poi è arrivato il Covid, e ha scardinato tutto. «Eventi acuti come una pandemia fanno da spartiacque. In un mondo sempre più complicato ho sentito l’esigenza di razionalizzare, ridarmi nuove priorità. Mi sono detta: se non ora, quando?», racconta Andreoli, che ha scelto di prendersi un anno di congedo per studio e ricerca a partire da luglio. Abbiamo indagato con lei un vissuto comune a molti medici, che intreccia il tema del burn-out con quello della gender equity.

Professoressa Andreoli, nella fase fiorente della tua carriera perché un anno sabbatico?

Negli ultimi dieci anni ho dedicato tutta me stessa al lavoro, ma ho sacrificato molto della mia vita personale. Il “life – work balance” è oggi molto precario, e dopo la maternità ti accorgi che la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro è ancora più complessa. L’esperienza dei lockdown e della Dad, con una bambina alla scuola primaria, mi ha messo a dura prova, perché non sapere ogni mattina se tua figlia potrà andare a scuola, come è successo lo scorso gennaio, diventa un rompicapo conciliabile con i turni in ospedale con grande difficoltà.

Sul lavoro è cresciuto in maniera esponenziale anche il carico burocratico-amministrativo cui far fronte, spesso ti accorgi di dedicare più tempo a questi adempimenti che alla professione. E il Covid che ci ha costretti a vivere e lavorare in continua emergenza ha lasciato segni profondi. Ho sempre amato il mio lavoro di medico, docente e ricercatore e mi ritengo fortunata perché ho potuto realizzare i miei desideri. Ho avuto il privilegio di occuparmi della organizzazione ex novo dei tirocini abilitanti per gli studenti di Medicina, con grande soddisfazione nella collaborazione con colleghi e rappresentanti degli studenti. Ma avevo bisogno di staccare da una quotidianità diventata troppo faticosa, che non consentiva di gestire in maniera efficiente ciascuna delle “anime” del mio lavoro, in particolare la ricerca.

Quando hai deciso di prenderti dodici mesi di pausa?

Quando le tue pazienti storiche ti chiedono “dottoressa non sta bene? La vedo cambiata…”, quando è il paziente che diede al dottore come sta, c’è qualcosa che non va. Mi sentivo un sacco svuotato, ho iniziato ad avvertire una stanchezza fisica mai provata e non giustificata, e ho capito che avevo bisogno di fermarmi. In questi due anni di pandemia si è parlato molto della resilienza dei medici, l’errore è dare per scontato che sia infinita. E tutto questo ha un prezzo in termini di stress e burn-out, situazioni molto diffuse tra i colleghi.

Piani e destinazioni per quest’anno di congedo?

Vorrei riconquistare il piacere di fare ricerca, che negli ultimi due anni è stata molto accantonata. Il mio pensiero va ai colleghi che hanno collaborato ai progetti, lo faccio anche per correttezza nei loro confronti, consapevole che i lavori scientifici devono prendere il volo, non marcire in un cassetto.

Vorrei accostarmi ad altri centri di ricerca per cogliere nuovi stimoli, per questo passerò del tempo a Stoccolma, al Karolinska Institutet, grande ospedale universitario che porta avanti alcune linee di ricerca affini al mio percorso, come quelle sul Lupus eritematoso sistemico e sulla sindrome da anticorpi antifosfolipidi. Viaggerò anche per congressi in Europa e Stati Uniti, in città dove ho contatti con molti colleghi. Ho voglia di essere mobile, senza la preoccupazione di turni in ospedale, lezioni in Università e di far quadrare tutto. Questo aiuterà a rigenerare la mente.

Alla passione per la ricerca affianchi quella, altrettanto forte, per la clinica. Scegliere la Reumatologia ti ha permesso di conciliare queste due vocazioni?

Le malattie autoimmuni sistemiche mi hanno affascinato fin dai primi anni di Medicina, perché il sistema immunitario che “sbaglia” e attacca sé stesso è un campo stimolante da indagare. E ti conduce a valutare ogni paziente nella sua interezza. Presso la Reumatologia e Immunologia Clinica degli Spedali Civili ho trovato un ambiente molto familiare e ricco di fermento, dove mi sono accostata fin da subito alla produzione scientifica e ai meeting internazionali. Promotrice e mentore di questo percorso è stata la prof. Angela Tincani, insieme al prof. Franco Franceschini che oggi ne ha raccolto il testimone. Nei nostri ambulatori facciamo un lavoro di gestione della cronicità e siamo un po’ un ponte fra ospedale e territorio, anche perché avere a che fare con malattie sistemiche implica una visione ampia, specialmente in termini di diagnosi differenziale, e capacità di dialogo con specialità diverse.

Sei principal investigator del Registro italiano delle gravidanze nelle malattie reumatologiche e fai parte del Gruppo di studio sulla Medicina di genere della Società Italiana di Reumatologia. Quanto è importante uno sguardo di genere nella tua specialità?

Dedicarsi alle malattie autoimmuni significa 8 volte su 10 avere a che fare con pazienti donne, spesso in età riproduttiva, che aspirano quindi a creare una famiglia. Nella cronicità c’è un rapporto medico-paziente speciale, dalle storie delle mie pazienti ho imparato tanto, e a mia volta credo di aver potuto incidere positivamente su di loro avvalendomi del mio percorso personale, in una sorta di rispecchiamento reciproco.

Ma accettare la diagnosi e poi la convivenza con una malattia cronica non sono passaggi facili, e lo sguardo di genere è fondamentale, anche se non ancora così diffuso in Italia. Da più di 30 anni esiste una proficua collaborazione con la Ostetricia per l’ambulatorio multidisciplinare per la gravidanza nelle malattie reumatologiche. Recentemente, questa collaborazione si è arricchita di un percorso con la Psicologia Clinica dell’Ostetricia per cogliere il disagio perinatale, gestire e studiare la depressione post-partum, argomento finora scotomizzato, che può presentarsi in pazienti con malattie croniche che di per sé possono essere disabilitanti dal punto di vista psicologico. A proposito del rispecchiarsi, essere donna e madre è sicuramente un valore aggiunto che mi aiuta nella gestione dell’ambulatorio per la gravidanza.

La professione medica è sempre più declinata al femminile: sotto i 50 anni le donne rappresentano il 60% dei medici iscritti, ma devono ancora confrontarsi con molti ostacoli per arrivare ai vertici. Tu sei un esempio in controtendenza, hai realizzato le tue ambizioni di carriera quale professore associato: cosa serve per valorizzare i talenti femminili?

C’è bisogno di una rivoluzione culturale. Ancora oggi le donne devono fare le proprie scelte in considerazione della famiglia, non possono permettersi di “eclissarsi” come tradizionalmente l’uomo può decidere di fare.

Penso che si debba partire da tante piccole cose che possono fare la differenza: le donne dovrebbero iniziare ad avere maggiore rispetto di sé stesse e riscoprire quel sentimento di sorellanza che si è perso nel corso del tempo. Dal punto di vista gestionale e dell’intelligenza emotiva abbiamo una marcia in più, come dimostrano i ruoli apicali ricoperti all’estero da molte donne, in aziende farmaceutiche e altre realtà private. Ma i modelli organizzativi accademici e ospedalieri scontano ancora una rigidità che non aiuta le donne. Pensiamo al tema della child care, la cura dei figli, che richiederebbe una maggiore flessibilità e una diversa organizzazione del lavoro: per esempio fissare le riunioni non alle 8 del mattino o di sera, ma in orari più conciliabili con la gestione dei figli, in particolare a favore delle realtà monogenitoriali. Tutti aspetti messi a fuoco nella task force sulla Gender Equity dell’EULAR (European Alliance of Associations in Rheumatology) che ho contribuito a far nascere con altre colleghe europee. Non nascondo che le resistenze siano ancora molte, ma la strada da percorrere è tracciata.

Sei stata coinvolta nella fondazione della SIR Young, la commissione che raccoglie i soci under 40 della Società Italiana di Reumatologia, e sei stata presidente dal 2018 al 2020: che consiglio daresti a una giovane donna che si avvia alla professione di medico?

Le ragazze giovani “sono avanti”, hanno le idee chiare sul proprio percorso formativo mediante specialità e/o dottorato, e soprattutto sono meno legate agli stereotipi, si sono affrancate dall’idea che per realizzarsi una donna debba per forza mettere su famiglia e fare figli. Credo sia importante ascoltare sé stesse, perché il lavoro che scegli è molto importante, soprattutto se fai il medico, che io reputo, più di un lavoro, una vocazione. Occorre essere assertive e saper piazzare i “no” giusti, ma allo stesso tempo non rinunciare alla propria indole femminile e a quell’empatia che nel nostro lavoro è indispensabile per capire chi hai di fronte, che sia un paziente o un collega. Bisogna riuscire a portare a bordo le persone nella maniera giusta, con adattabilità e flessibilità.

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