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Notiziario dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Brescia – aut. Tribunale di Brescia n. 195/1962

Per salvare la Terra (e noi stessi) impariamo a pensare in modo nuovo

La salvaguardia del pianeta e i rischi di uno sviluppo indiscriminato che sta generando inquinamento, cambiamenti climatici, perdita della biodiversità e diffusione di malattie sono temi che ci interpellano tutti da vicino. Una minaccia colta in tutta la sua urgenza durante l’ultimo biennio di pandemia, che ci ha resi profondamente consapevoli della relazione tra l’ecosistema e la nostra salute.

Ne abbiamo parlato con il professor Luca Savarino in occasione della lectio magistralis tenuta lo scorso 19 giugno a Brescia, durante la “Giornata del Medico” promossa dall’Ordine.

Savarino, filosofo e bioeticista, è professore di Bioetica all’Università del Piemonte Orientale e membro del Comitato nazionale per la Bioetica. Si occupa in particolare dei rapporti fra etica e scienza, filosofia e medicina, ambiente e salute. È uno dei pochi filosofi in Italia che fa stabilmente parte di un Dipartimento di Medicina. Il suo ultimo libro, uscito nel 2021 per Feltrinelli, è La salute del mondo. Ambiente, società, pandemie, scritto insieme all’epidemiologo Paolo Vineis.

Professor Savarino, la pandemia e la crisi ambientale hanno sollevato nuovi quesiti etici, e reso necessaria un’“agenda globale” che rimetta in discussione molte delle nostre più radicate convinzioni. “Per preservare l’ambiente, la Terra che abitiamo, e quindi anche noi stessi, bisogna imparare a pensare diversamente”, scrivete nel libro. Da dove avviare questa “rinascita” del pensiero?

Il nuovo modo di pensare nasce da una riflessione sulle cause della pandemia. Quando nel marzo del 2020 ci siamo ritrovati tutti chiusi in casa per due mesi, ci siamo immediatamente chiesti di chi fosse la responsabilità di questo evento, se poteva essere previsto, se si trattava di un evento naturale come un terremoto o maremoto, qualcosa cioè di imponderabile e imprevedibile, oppure se non esistessero delle responsabilità sociali, culturali e politiche nello scoppio della pandemia. Le risposte sono state spesso avventate, almeno all’inizio molto superficiali, e hanno cercato di trovare un “colpevole” cui addebitare quanto accaduto. Purtroppo di fronte a questi fenomeni non esistono risposte semplici: la prima caratteristica del nuovo modo di pensare è abbandonare l’idea della semplificazione ad ogni costo. Siamo di fronte a un fenomeno complesso che ha delle cause molteplici che vengono da lontano, e come tale va affrontato, entrando nell’ottica secondo cui gli effetti della pandemia si vedono non solo nell’immediato, ma anche a lungo termine. Il Covid non è finito e questa non sarà probabilmente l’ultima pandemia a colpire l’Occidente.

Ma il vero problema che l’umanità futura dovrà affrontare sarà in primo luogo la questione della crisi ambientale e del cambiamento climatico, un tema che ha radici altrettanto lontane ed effetti a lungo termine, di fronte al quale siamo chiamati a mettere in atto un’azione di preparedness, che significa essere preparati a quello che ci aspetta e che certamente in futuro ci toccherà.

Se vogliamo capire cosa è stato il Covid dobbiamo capire cos’è la crisi ambientale, quali sono le sue determinanti e i possibili effetti. Il nuovo modo di pensare deve essere globale e abbracciare un’ampia prospettiva temporale, sia passata che futura. Occorre andare alle radici di ciò che sta accadendo e le radici sono molto profonde e molto lontane.

L’illusione umana di uno sviluppo illimitato ha una parte importante di responsabilità…

Il motivo per cui è scoppiata la pandemia da Covid-19 è essenzialmente il fatto che l’umanità ha creato una serie di condizioni ambientali favorevoli alla diffusione di quelli che si chiamano fenomeni di zoonosi, ovvero il passaggio di un virus dall’animale all’uomo tramite un ospite intermedio. I fenomeni di zoonosi sono in aumento esponenziale in questi 30 anni, per una serie di azioni che abbiamo messo in atto sul pianeta negli ultimi 150 anni, come la deforestazione, l’aumento degli allevamenti intensivi che favorisce il contatto uomo-animale, la perdita di biodiversità. Tant’è che si è iniziato a utilizzare la categoria di “antropocene” per riferirsi ad un’era geologica in cui l’uomo per la prima volta è diventato una forza capace di trasformare radicalmente le condizioni di vita sul pianeta. Si tratta di una nozione non solo filosofica ma scientifica, se consideriamo che gli strati geologici più profondi del pianeta recano traccia dell’azione umana. La plastica è arrivata alle fondamenta del pianeta terra, e l’uomo è diventato un fattore capace di alterare gli equilibri geologici fondamentali dei luoghi in cui viviamo.

Una tendenza che sembra difficile da invertire. Come provarci?

Nonsi tratta di trovare i colpevoli, si tratta di gestire una situazione che richiederà un drastico cambiamento nel nostro modo di pensare e nelle abitudini di vita, soprattutto per le generazioni future, se vogliamo che esistano delle generazioni future.

La questione riguarda da vicino i medici, se si considera che l’epidemiologia si era dimenticata dell’esistenza delle epidemie, perché si pensava che riguardassero il passato o zone remote e a basso reddito. Sempre di più negli ultimi 50 anni abbiamo iniziato a comprendere che le malattie hanno cause complesse che vengono da lontano, e che nessun sistema sanitario al mondo potrà più affrontare la questione soltanto all’ultimo miglio: non possiamo più pensare di curare tutti quelli che si ammalano perché questo è troppo costoso. Bisogna agire sulle cause, su fattori intermedi e distali -ovvero quelli che vengono da lontano – cercare di prevenire, di prevedere, non semplicemente di curare.

La nuova concezione di salute globale – One Health – che unisce in un unico sguardo l’uomo e l’ambiente ci sta portando a riconsiderare il concetto stesso di malattia?

I medici e gli scienziati più avvertiti sanno da molto tempo che esiste una connessione tra dimensione sociale, ambientale e salute umana, e che la malattia dipende da molteplici fattori, non solo di carattere naturale.

Alcuni anni fa uno studio pubblicato su una prestigiosa rivista scientifica sosteneva che ammalarsi di cancro sia questione di sfortuna, perché i meccanismi che lo provocano sono legati ad errori nella duplicazione cellulare. Oggi sappiamo bene che questa tesi non è sostenibile, va rivista e ampliata perché quei meccanismi di replicazione dipendono anche da una serie di fattori ambientali e sociali (si pensi all’esposizione ad agenti inquinanti, allo stress psichico e in generale al livello sociale che determina anche l’aspettativa di vita). Sono cose note da tempo, non possiamo più considerare la malattia come una fatalità, né pensare di agire semplicemente quando la malattia si manifesta: se vogliamo proseguire nel percorso verso un maggiore benessere e durata della vita media che l’Occidente ha sperimentato negli ultimi 80 anni dobbiamo ragionare in termini di complessità e di interconnessione, cioè ragionare su quegli elementi sociali e ambientali che fanno sì che le persone si ammalino.

I sistemi sanitari sono chiamati a confrontarsi con tagli e scarsità di risorse. Questo nuovo approccio può assicurare la loro “tenuta”?

Chiunque conosce le dinamiche del Servizio sanitario nazionale sa che l’equilibrio complessivo del sistema dipende dalla possibilità di diminuire i costi delle cure. Oggi sappiamo curare in maniera altamente tecnologica e molto costosa, ma non possiamo curare tutti. Nel libro trattiamo di un tema che è salito alla ribalta degli ultimi due anni, soprattutto all’inizio della pandemia, quello del triage nelle Terapie intensive, quando i posti disponibili erano pochi e si è dovuto scegliere chi ricoverare e chi no. Le zone del Bresciano e della Bergamasca sanno bene che questo è accaduto negli ospedali italiani. Ma al di là della questione dell’emergenza che ci ha colti impreparati c’è un nodo strutturale, quello dell’allocazione delle risorse sanitarie. E’ un problema, soprattutto in Italia, perché invece che essere discusso viene accettato e risolto in maniera “occulta”. Le risorse sanitarie non sono illimitate, non possiamo curare tutti per tutto: quindi viene fatta una scelta che non è “tragica” come quella del marzo, aprile, novembre e dicembre 2020, ma è piuttosto una selezione legata all’aumento di alcuni fattori di rischio, cui alcuni vengono sottoposti a dispetto di altri. Questa è l’ottica su cui ragionare.

Perché è fondamentale che la concezione One Health si accompagni ad un’etica globale (One Ethics) e ad una nuova idea di responsabilità?

Insistere su questo tema significa anche ripensare la questione della responsabilità etica e politica. Perché se il problema è sociale e ambientale, non è più esclusivamente limitato ad un contesto che noi definiamo di tipo prossimale, cioè ad un ambiente ristretto, una cerchia di persone chiaramente identificabili. La verità è che le nostre azioni in campo sanitario e ambientale hanno dei riflessi che si ripercuotono su persone molto lontane da noi, per esempio sulla vita di chi abita altri luoghi del mondo. La crisi ambientale è un iperoggetto, cioè un oggetto così grande da non poterlo misurare adeguatamente e vedere nella sua interezza. In Bangladesh la crisi ambientale si manifesta con l’aumento delle acque dell’oceano che penetrano negli estuari dei fiumi, salinizzano le acque e aumentano la mortalità per malattie cardiovascolari. Da noi si manifesta con la siccità che fra un po’ ci costringerà a razionare l’acqua, visto che il Po è completamente secco. Anche il virus è un iperoggetto, ancora oggi non sappiamo bene come si muove e per che motivo ci siano stati livelli di contagio così alti in alcuni luoghi piuttosto che in altri.

Di fronte a questo la responsabilità diventa una responsabilità a lungo termine e a largo raggio. Siamo responsabili nei confronti di persone che non conosciamo e non vedremo mai, di individui che ancora non ci sono, e questo è un problema etico e politico, perché l’umanità ha sempre vissuto in contesti limitati e ha sempre pensato la responsabilità in termini di comportamenti che aiutino o danneggino persone che ci stanno vicino. La questione della responsabilità tra generazioni non è mai stata posta in maniera così radicale: oggi siamo di fronte alla concreta possibilità che l’umanità si estingua e non esistano generazioni future. E questo riguarda non soltanto ciascuno di noi individualmente, ma soprattutto la politica.

I rischi globali ci dovrebbero unire nella tutela di un bene che ci accomuna tutti, la Terra che abitiamo. Ma trovare una via d’azione condivisa non sembra ancora una priorità…

Non è molto difficile capire cosa bisognerebbe fare per mitigare gli effetti del cambiamento climatico nei prossimi anni. Intanto bisognerebbe cercare di ridurre le emissioni di CO2, cosa che è molto complesso fare per una serie di ragioni, e in questo l’Italia sconta un suo decennale ritardo sulle fonti di energia rinnovabili. Altre priorità sono la riduzione degli allevamenti intensivi e del consumo di carne, il rallentamento della deforestazione, il mantenimento della biodiversità. Cosa si dovrebbe fare a livello mondiale, attraverso azioni politiche internazionali coordinate, tutto sommato si sa. Il problema è che queste raccomandazioni si scontrano con un problema di forma politica, dal momento che la politica fa uso di uno strumento decisionale che è lo Stato nazionale, che è limitato territorialmente. Istituzioni come Onu e Oms non hanno potere decisionale, chi decide sono gli Stati, e le cose si complicano perché la transizione ecologica ha dei costi e bisogna mettersi d’accordo su chi li pagherà, e in quale misura.

Da un lato il sostegno allo sviluppo economico, dall’altro la salvaguardia del pianeta. Obiettivi non facilmente conciliabili per i governi. Come deve ripensarsi la politica?

Il problema non è il fine, la sopravvivenza del pianeta, su cui ormai c’è una consapevolezza diffusa a livello mondiale. Il problema è che ci sono obiettive differenze nei livelli di sviluppo delle diverse aree del pianeta, e scelte troppo restrittive potrebbero negare ad alcune qualsiasi possibilità di migliorare le proprie condizioni nel futuro, una situazione che per questi territori renderebbe preferibile l’opzione del “morire tutti assieme” a causa dei cambiamenti climatici piuttosto che continuare a vivere con pesanti disuguaglianze. Non si può dire a chi ha un milionesimo delle tue ricchezze “ci tagliamo di metà il nostro reddito”. Questo è un problema dell’Occidente, che deve cercare di elaborare una strategia sostenibile ma allo stesso tempo equa, e gestire i problemi che si porranno in termini di decrescita, difficoltà economiche, difesa dei posti di lavoro. Scelte molto complesse che ci riportano all’interrogativo iniziale: chi paga i costi e in quale misura.

C’è poi un’altra questione, più strutturale ancora. Il politico risponde ai propri cittadini, non all’umanità. L’umanità non vota. La logica dello Stato è di corto respiro, territorialmente limitata, risponde ai suoi cittadini e nell’arco di pochi anni. Le generazioni future non voteranno gli attuali politici, e questo pone anche un problema di efficacia della politica. Si possono mettere in atto azioni i cui risultati si vedranno fra 70 anni, ma il risultato più immediato sarà una mancata rielezione fra 4 anni. Questo è uno dei motivi per cui COP26, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, ha avuto un esito insufficiente rispetto agli obiettivi prefissati.

Anche il rapporto tra scienza, società e politica si è fatto sempre più complesso, come insegna l’esperienza pandemica. Colpa di una scarsa consuetudine con i principi del metodo scientifico?

L’Italia sconta indubbiamente un deficit di formazione scientifica a livello di istruzione di base, e questo è un problema specifico del nostro Paese. Ad esempio subito dopo lo scoppio della pandemia non si è capito, e talvolta nemmeno accettato, il fatto di dover vivere nell’incertezza riguardo ai meccanismi di diffusione del contagio e alle sue cause. La scienza produce delle certezze che crescono progressivamente, ma sono necessariamente limitate. Una delle cose più difficili è stata comunicare l’incertezza, si pensi ai vaccini: la comunicazione istituzionale a mio giudizio avrebbe dovuto essere maggiormente univoca, articolata in poche voci, e comunicare con maggiore chiarezza che alcune cose non le sapevamo e non avremmo potuto saperle. Questo avrebbero dovuto capirlo tutti gli italiani. Adesso il problema si riproporrà con la campagna per la quarta dose del vaccino, perché non è stato detto con chiarezza che non sapevamo quanto sarebbe durata l’immunità e quanti richiami erano necessari. A settembre si ripresenterà un problema di vaccinazione complessivo che dovrà essere giustificato, ma che andava giustificato prima.

Abbiamo visto in questa pandemia come la scienza sia diventata lo strumento di cui la politica si è servita per giustificare le proprie scelte. Ma per mettere a punto politiche efficaci e legittime basta appoggiarsi alle evidenze scientifiche?

Non mi sento di accusare la politica italiana perché la situazione era molto complicata. Quello che è sbagliato è pensare che la politica possa legittimare le sue decisioni sulla base di un’evidenza scientifica. La scienza ti dice qual è l’Rt, cosa succede se non lo abbassi, come si muove il virus, ma non ti dice se è giusto o no salvare le vite degli over 70, dei soggetti fragili o salvaguardare il sistema ospedaliero. La scienza non te lo dice perché si tratta di una decisione etica. Ci sono luoghi, come il Brasile o gli Stati Uniti, dove i lockdown sono stati messi in atto in maniera molto limitata: ciò significa che le politiche di lockdown non erano “necessarie”, se no le avrebbero adottate in tutto il mondo. Non erano “necessarie” ma erano “giuste” secondo chi ha deciso di adottarle, per salvare vite umane e assicurare i doveri di solidarietà sociale. La scienza non può giustificare una decisione politica, ma può dirci che se agiamo in un certo modo le conseguenze saranno di un certo tipo.

Invece in questi due anni c’è stato nei confronti della scienza un atteggiamento ambivalente, che da un lato ha cercato di sovraccaricarla di responsabilità che per sua natura non può avere, dall’altro ha teso in buona parte a svilirla.

Cos’è il “mix etico” di cui parlate nel libro come riferimento per le scelte politiche?

Mix etico significa che in situazioni complesse come quelle in cui ci troviamo è opportuno cercare di ragionare con strumenti e metodi che la tradizione filosofica ci mette a disposizione, senza privilegiarne per forza uno.

Emblematico dell’approccio che guarda solo alle conseguenze del nostro agire è un articolo apparso sull’Economist nel marzo 2020, secondo cui gli effetti economici del lockdown si sentiranno nei prossimi 50 anni, e questo provocherà un numero di morti molto più alto di quelli che ci sarebbero stati se non avessimo fatto il lockdown. Questa affermazione è difficilmente misurabile, possiamo anche pensare che sia plausibile, il problema vero è che la gente ti moriva davanti. I costi sociali ed economici li devi avere presenti, ma il metodo del calcolo delle conseguenze da solo non basta, ci vuole un approccio che ti consenta di salvare le vite di quelli che oggi puoi salvare, senza trascurare quelli che fra 50 anni moriranno ad emergenza finita. Questo implica un mix di due prospettive differenti, quella che guarda alle conseguenze e quella che ti impone un dovere di soccorso immediato nei confronti delle persone.

In un orizzonte di responsabilità collettive come può agire il singolo?

La pandemia ha messo sotto gli occhi di tutti il fatto che viviamo in un contesto sociale di cui ci stavamo dimenticando. Per la bioetica, l’etica e anche la politica degli ultimi 50 anni il valore fondamentale era l’autonomia individuale, l’autodeterminazione del singolo. Noi abbiamo riscoperto anche la necessità della solidarietà sociale, come quella che impone dal punto di vista morale di vaccinarsi a chi non avrebbe molti rischi di ammalarsi in forma grave.

Per salvaguardare il pianeta esistono una serie di comportamenti virtuosi, il vero problema è come convincere le persone ad adottarli. La leva per un comportamento responsabile individuale passa attraverso un mix di utilità e dovere, secondo le politiche che vengono definite dei co-benefici. Pensiamo al consumo di carne rossa: mangiarne meno può essere raccomandato sia in ordine ai benefici che avrà sull’ambiente (in termini di diminuzione degli allevamenti), sia per i benefici sulla nostra salute. Il co-beneficio sta nel fatto che scegliendo questa linea d’azione si ottiene un vantaggio che riguarda noi stessi e il mondo. E’ questa la logica argomentativa da scegliere, non pensando che le persone debbano per forza essere votate alla santità e alla bontà, ma certamente responsabili nei confronti di sé stesse e degli altri. Lo stesso ragionamento potrebbe valere per ridurre gli spostamenti con mezzi di trasporto inquinanti come l’aereo o l’automobile, da utilizzare solo quando strettamente indispensabili: questo fa bene al mondo ma anche a noi, perché probabilmente faremo più attività motoria con un ritorno positivo sul nostro benessere.

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