Lei ha 84 anni, lui quattro meno di lei, sposati da cinquanta dopo un fidanzamento di cinque.
Si sono conosciuti a Milano dove lui era arrivato dalla Marche, per un posto di lavoro in una pelletteria. Dopo qualche anno ha aperto una bottega di calzolaio, lavoro che ha fatto sino a quasi cinque anni fa quando per la salute della moglie ha dovuto smettere e trasferirsi nella nostra città per essere più vicino al figlio.
Vengono in ambulatorio per una valutazione finalizzata all’ottenimento dell’assegno di accompagnamento.
Quando li chiamo sono in sala d’attesa: lei si alza in due-tre tentativi e entra in ambulatorio camminando lentamente e al braccio del marito. Si siedono. Ha uno sguardo assente, è molto sorda, ma anche quando riesce a capire le mie semplici domande non è in grado di rispondere.
Risponde lui per lei; come un tempo con lei, e ora anche per lei, ha svolto e svolge tutte le faccende domestiche. Le sta accanto e la guarda in modo dolce. Non ho molto tempo, ma oggi gli altri possono aspettare. Lo faccio parlare e raccontare la loro semplice storia.
Con rara tenerezza dice che la fatica di vivere ha raggiunto livelli insopportabili. Loro sarebbero “pronti”.
Prima di lasciarci, toglie dal portafogli e mi porge un foglietto scritto a mano. È la preghiera che lui ha scritto e che recitano tutte le sere.
Da Giuseppe e Emilia “Preghiera a Gesù”.
Mio buon Gesù,
facci morire
quando vuoi tu.
Non farci soffrire
non darci dolore
Se proprio vuoi
una morte veloce.
Son tanti anni
che già noi soffriamo
Preghiamo te
l’infarto d’addio
dalla terra di Dio.
La copio su un foglio del ricettario e li saluto, col cuore provato, ma con rinnovata superbia per l’arduo privilegio della mia professione.