“Nel periodo tra Ottobre 1980 e Maggio 1981 5 giovani uomini, tutti omosessuali attivi, sono stati trattati per una polmonite da Pneumocystis carinii confermata istologicamente in tre differenti ospedali di Los Angeles, California.”
Così, in un breve report dei CDC di Atlanta pubblicato nel giugno 1981, l’HIV faceva la sua comparsa nella letteratura scientifica. Pochi si sarebbero potuti immaginare che quelle cinque persone sarebbero rapidamente diventate migliaia e poi milioni e che quella malattia ancora senza nome, che portava giovani sani a spegnersi lentamente, avrebbe rappresentato una delle più grandi sfide mediche e sociali dei decenni a venire.
Si stima che, dall’inizio della pandemia, 79,3 milioni di persone si siano infettate e 36,3 milioni (quasi 700.000 solo nel 2020) siano morte a causa dell’infezione da HIV. Ad oggi l’infezione colpisce 37,7 milioni di persone nel mondo, due terzi delle quali (27,5 milioni) hanno accesso alla terapia antiretrovirale (dati UNAIDS 2020).
La peste dell’era moderna
Chi ha lavorato a contatto con l’AIDS nei primi anni della pandemia ricorda quell’esperienza come un periodo drammatico in cui i pazienti, spesso giovani, una volta ricevuta la diagnosi si trasformavano in “dead men walking”, condannati ad una morte certa che spesso avveniva in completa solitudine a causa dell’emarginazione sociale dettata dal pregiudizio e dalla paura. Chi si ammalava era destinato a morire ed i medici potevano poco o nulla, impotenti di fronte ad un virus che sembrava invincibile; il loro compito sembrava diventato semplicemente quello di rallentare quella corsa verso la morte o, quantomeno, di renderla meno feroce. Anche allora, come oggi, un virus è stato capace di sorprendere il mondo scientifico e di raggiungere in breve tempo ogni angolo del Globo, modificando abitudini e costringendo ad una rincorsa per limitare il più possibile i danni.
Per alcune fasce della popolazione, prima fra tutte la comunità omosessuale, la pandemia di HIV ha rappresentato una vera e propria peste dell’era moderna, un’ecatombe che ha profondamente segnato vite ed esperienze di tutti coloro che l’hanno attraversata determinando un trauma collettivo in grado di lasciare cicatrici indelebili su intere generazioni
Guardandosi indietro: un traguardo dopo l’altro
I momenti cruciali nella lotta all’infezione dell’HIV sono stati molteplici in questi quarant’anni; il primo e certamente più importante è rappresentato dell’introduzione, a metà degli anni novanta, della terapia di combinazione (HAART- Highly Active Antiretroviral Therapy) che ha completamente modificato l’aspettativa di vita delle persone affette e l’andamento della malattia, trasformandola a poco a poco in una patologia cronica con la quale era possibile convivere; questa convivenza, tuttavia, aveva inizialmente un prezzo alto: basta parlare con un qualsiasi paziente “storico” per comprendere quanto i primi regimi di trattamento fossero difficilmente tollerabili, sia per gli effetti collaterali che per il numero spropositato di compresse (a volte decine) da assumere ogni giorno. Le terapie lasciavano spesso segni anche esteriori, meno gravi per la salute ma estremamente temuti dai pazienti, come la lipodistrofia che colpiva i malati in trattamento e li rendeva riconoscibili come tali, rischiando di esporli al pubblico giudizio ed alla conseguente emarginazione sociale.
Con il tempo gli effetti indesiderati si sono ridotti sempre più, così come il numero di pastiglie, fino ad arrivare allo standard di cura di una monosomministrazione giornaliera che, con l’avvento dei nuovi farmaci iniettabili, sembra avviata a trasformarsi in un’iniezione ogni 3-4 volte l’anno. Anche dal punto di vista della qualità della vita le cose sono molto cambiate: al giorno d’oggi una persona affetta da HIV regolarmente in trattamento ha un’aspettativa di vita quasi del tutto paragonabile a quella di un soggetto sieronegativo, può avere figli e vivere una vita normale, traguardi che solo vent’anni fa potevano apparire irraggiungibili.
E’ con l’introduzione del concetto di U=U (Undetectable= Untrasmittable), avvenuta tra il 2018 ed il 2019, che le persone affette da HIV hanno vissuto un’ ulteriore svolta epocale: con questa sigla il mondo scientifico ha ufficializzato infatti il concetto per cui un paziente con carica virale non rilevabile da almeno 6 mesi e regolarmente in terapia antiretrovirale efficace, condizione attualmente soddisfatta dall’80-90% dei soggetti HIV positivi in trattamento in Italia, non sia in grado di trasmettere l’infezione a persone sieronegative tramite rapporti sessuali.

Una “globalizzazione” auspicata
Quando affermiamo che i progressi nel trattamento dell’infezione da HIV hanno completamente modificato l’aspettativa e la qualità della vita delle persone sieropositive spesso dimentichiamo che, per quest’infezione come per moltissime altre patologie curabili, una parte considerevole della popolazione mondiale non ha ancora oggi accesso ai farmaci. Ricordo bene, durante una visita ambulatoriale, le parole di una donna gravida originaria del Burkina Faso che in Africa aveva perso due figli piccoli per colpa dell’infezione: “me ne sono andata dal mio Paese perché almeno il bambino che sto aspettando possa sopravvivere”, aveva detto. Come darle torto?
Diversi studi hanno dimostrato come l’aspettativa di vita di una persona con HIV possa modificarsi di decenni in base alla regione geografica di residenza; i dati UNAIDS 2020 mostrano come 10,2 milioni di persone affette da HIV, circa un terzo del totale, non abbiano accesso alle terapie. Anche se tali numeri hanno fatto registrare un progressivo miglioramento negli anni, il divario tra Paesi ad elevato e basso reddito rimane inaccettabile. La pandemia di COVID-19 ha ulteriormente accentuato queste differenze, causando in molti Paesi a basso reddito la completa dismissione dei programmi dedicati alla diagnosi ed al trattamento dell’infezione da HIV; tale rallentamento è stato una delle ragioni del mancato raggiungimento dell’obiettivo “90-90-90” (90% di persone affette da HIV a conoscenza del proprio status, delle quali il 90% sia in terapia efficace con il raggiungimento di una carica virale non rilevabile nel 90% dei pazienti) fissato dall’OMS per il 2020: nonostante i progressi fatti tale traguardo appare oggi ancora piuttosto lontano.


L’obiettivo posto dall’OMS per il prossimo decennio è ancor più ambizioso, ed è riassunto nello slogan “95-95-95” (95% di persone affette da HIV a conoscenza del proprio status, delle quali il 95% sia in terapia efficace con il raggiungimento di una carica virale non rilevabile nel 95% dei pazienti); a questi 3 punti ne è stato inoltre aggiunto un quarto, quello dello “zero stigma” intorno all’infezione da HIV, a sottolineare come l’eliminazione della discriminazione nei confronti delle persone sieropositive debba assumere un’importanza sempre maggiore nell’ambito della lotta all’HIV/AIDS.
La situazione bresciana
I pazienti con infezione nota da HIV attualmente in carico presso le Malattie Infettive di Brescia sono più di 3800, con 96 nuove diagnosi nel 2020 a fronte di 133 nel 2019, calo verosimilmente influenzato dal sopraggiungere della pandemia da COVID-19.
Il 98% dei soggetti con diagnosi di HIV seguito presso il nostro Centro è in terapia e più del 93% dei pazienti in trattamento presenta una carica virale plasmatica non rilevabile, a dimostrazione dell’elevata efficacia delle terapie antiretrovirali in atto.
Nel 2020 il Comune di Brescia ha sottoscritto la dichiarazione di Parigi entrando così a far parte delle cosiddette “Fast Track Cities”, una rete di città che si impegnano per la messa a punto di strategie atte a raggiungere gli obiettivi ONU per la lotta all’AIDS fissati per il 2030.
Un alone che non scompare
Se dal punto di vista della terapia sono stati fatti passi da gigante, lo stesso non si può dire per quanto riguarda la percezione dell’infezione da HIV nella società.
Inizialmente questa patologia era dai più considerata un’esclusiva di minoranze emarginate quali quelle degli omosessuali o dei tossicodipendenti ed era quindi associata nell’opinione pubblica ad un concetto di colpa, una sorta di espiazione di comportamenti “non allineati”. Chiunque abbia vissuto negli anni ’90 ricorderà le pubblicità progresso in cui le persone infette si muovevano su musiche inquietanti, circondate da un alone viola che le isolava dagli altri e poteva essere trasmesso a chi si avvicinasse troppo. Non so se e quanto quella trovata pubblicitaria abbia aiutato a ridurre il numero dei contagi, ma posso provare a mettermi nei panni di una persona sieropositiva che si imbattesse in quelle immagini: impossibile non sentirsi un untore o non introiettare, anche inconsapevolmente, quel senso di colpevolezza che l’opinione pubblica attribuiva ai malati.
Anche se con gli anni l’andamento dell’infezione si è profondamente modificato quell’alone viola, purtroppo, continua ad esistere ed a fare danni nell’immaginario collettivo. Lo stigma è infatti ad oggi uno dei più grandi ostacoli che le persone affette da HIV si trovano quotidianamente ad affrontare: la maggior parte dei sieropositivi non comunica il suo stato di malattia per paura di ripercussioni nella sfera privata o lavorativa, ripercussioni che diventano in molti casi realtà ove lo stato di sieropositività venga dichiarato o scoperto.
Se, da un lato, l’infezione da HIV si è trasformata nel tempo da una sentenza di morte ad una patologia cronica gestibile e controllabile, questo profondo cambiamento della storia clinica della malattia ha dall’altro lato portato ad un fisiologico calo dell’attenzione e dell’informazione riguardo l’HIV/AIDS a livello di opinione pubblica, con un conseguente scarto fra i progressi scientifici nella gestione dell’infezione e la percezione dell’infezione stessa all’interno della società. Tale percezione, dettata generalmente da scarsa conoscenza, vive inoltre un paradosso per cui il rischio di infezione da HIV è spesso sottovalutato o non percepito affatto, ma allo stesso tempo le persone sieropositive vengono ancora considerate soggetti pericolosi e da evitare.
L’immaginario collettivo riguardo la persona sieropositiva non si è modificato nel tempo: l’idea che chi si ammala “se la sia andata a cercare” è ancora ben radicata nell’opinione pubblica, così come la credenza secondo cui i malati siano per lo più tossicodipendenti, omosessuali o persone emarginate, “colpevoli” di comportamenti anomali o, peggio, immorali. Intorno all’infezione da HIV aleggia infatti ancora oggi lo spettro della moralità, che tanto ha contribuito alla definizione dello stigma: nella percezione comune un virus trasmesso con i rapporti sessuali si trasforma fin troppo facilmente in un castigo per azioni che fuoriescano dal recinto della normalità, in una lettera scarlatta in grado di marcare, agli occhi della società, i comportamenti non allineati e coloro che se ne macchiano.
Finchè una persona affetta da HIV non si sentirà libera di parlare della propria condizione esattamente come farebbe per qualsiasi altra malattia senza la paura di essere isolata, etichettata o emarginata, la battaglia contro quest’ infezione non potrà considerarsi vinta.
Se inizialmente, a ragione, gli sforzi si sono concentrati sul progresso terapeutico, ora è più che mai necessario focalizzare maggiormente l’attenzione anche sull’aspetto sociale della malattia e sull’impatto che questo può avere sulla qualità di vita dei pazienti, necessità evidenziata anche dalla creazione dell’obiettivo “zero stigma” per il 2030.
Per raggiungere questo traguardo è però necessario partire da un esame di coscienza, perchè quello dello stigma è un problema che purtroppo non risparmia la nostra categoria: troppo spesso anche nella classe medica il pregiudizio attorno all’infezione da HIV sopravvive ed il paziente sieropositivo è guardato con sospetto e diffidenza; tale comportamento è generalmente dettato da una scarsa conoscenza dell’infezione e, soprattutto, dei progressi fatti dalla medicina nella riduzione del rischio di infezione, per cui il soggetto sieropositivo è percepito come una minaccia per la propria incolumità. Se per un comune cittadino il superamento dei pregiudizi nei confronti dell’infezione da HIV è auspicabile, per un medico diventa un passo imprescindibile e non procrastinabile.
Proviamo allora a pensare per un momento a quanti pazienti con infezione da HIV abbiamo incontrato lungo il nostro percorso professionale: possiamo dire di aver sempre offerto loro la stessa qualità di cura, le stesse procedure e lo stesso trattamento che avremmo riservato ad un paziente sieronegativo? Se questa domanda ci suscita qualche esitazione avremo la conferma che il lavoro da fare è ancora molto e che, se vogliamo che quell’alone viola possa finalmente dissolversi, il cambiamento deve partire innanzitutto da noi.