Cerca

Uno spazio di confronto sulla medicina con notizie, opinioni e commenti

Notiziario dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Brescia – aut. Tribunale di Brescia n. 195/1962

Quarant’anni di Hiv: tra vittorie e sfide aperte

Nel periodo tra Ottobre 1980 e Maggio 1981 5 giovani uomini, tutti omosessuali attivi, sono stati trattati per una polmonite da Pneumocystis carinii confermata istologicamente in tre differenti ospedali di Los Angeles, California.”

Così, in un breve report dei CDC di Atlanta pubblicato nel giugno 1981, l’HIV faceva la sua comparsa nella letteratura scientifica. Pochi si sarebbero potuti immaginare che quelle cinque persone sarebbero rapidamente diventate migliaia e poi milioni e che quella malattia ancora senza nome, che portava giovani sani a spegnersi lentamente, avrebbe rappresentato una delle più grandi sfide mediche e sociali dei decenni a venire.

Si stima che, dall’inizio della pandemia, 79,3 milioni di persone si siano infettate e 36,3 milioni (quasi 700.000 solo nel 2020) siano morte a causa dell’infezione da HIV.  Ad oggi l’infezione colpisce 37,7 milioni di persone nel mondo, due terzi delle quali (27,5 milioni) hanno accesso alla terapia antiretrovirale (dati UNAIDS 2020).

La peste dell’era moderna

Chi ha lavorato a contatto con l’AIDS nei primi anni della pandemia ricorda quell’esperienza come un periodo drammatico in cui i pazienti, spesso giovani, una volta ricevuta la diagnosi si trasformavano in “dead men walking”, condannati ad una morte certa che spesso avveniva in completa solitudine a causa dell’emarginazione sociale dettata dal pregiudizio e dalla paura. Chi si ammalava era destinato a morire ed i medici potevano poco o nulla, impotenti di fronte ad un virus che sembrava invincibile; il loro compito sembrava diventato semplicemente quello di rallentare quella corsa verso la morte o, quantomeno, di renderla meno feroce.  Anche allora, come oggi, un virus è stato capace di sorprendere il mondo scientifico e di raggiungere in breve tempo ogni angolo del Globo, modificando abitudini e costringendo ad una rincorsa per limitare il più possibile i danni.

Per alcune fasce della popolazione, prima fra tutte la comunità omosessuale, la pandemia di HIV ha rappresentato una vera e propria peste dell’era moderna, un’ecatombe che ha profondamente segnato vite ed esperienze di tutti coloro che l’hanno attraversata determinando un trauma collettivo in grado di lasciare cicatrici indelebili su intere generazioni

Guardandosi indietro: un traguardo dopo l’altro

I momenti cruciali nella lotta all’infezione dell’HIV sono stati molteplici in questi quarant’anni; il primo e certamente più importante è rappresentato dell’introduzione, a metà degli anni novanta, della terapia di combinazione (HAART- Highly Active Antiretroviral Therapy) che ha completamente modificato l’aspettativa di vita delle persone affette e l’andamento della malattia, trasformandola a poco a poco in una patologia cronica con la quale era possibile convivere; questa convivenza, tuttavia, aveva inizialmente un prezzo alto: basta parlare con un qualsiasi paziente “storico” per comprendere quanto i primi regimi di  trattamento fossero difficilmente tollerabili, sia per gli effetti collaterali che per il numero spropositato di compresse (a volte decine) da assumere ogni giorno. Le terapie lasciavano spesso segni anche esteriori, meno gravi per la salute ma estremamente temuti dai pazienti, come la lipodistrofia che colpiva i malati in trattamento e li rendeva riconoscibili come tali, rischiando di esporli al pubblico giudizio ed alla conseguente emarginazione sociale.
Con il tempo gli effetti indesiderati si sono ridotti sempre più, così come il numero di pastiglie, fino ad arrivare allo standard di cura di una monosomministrazione giornaliera che, con l’avvento dei nuovi farmaci iniettabili, sembra avviata a trasformarsi in un’iniezione ogni 3-4 volte l’anno. Anche dal punto di vista della qualità della vita le cose sono molto cambiate: al giorno d’oggi una persona affetta da HIV regolarmente in trattamento ha un’aspettativa di vita quasi del tutto paragonabile a quella di un soggetto sieronegativo, può avere figli e vivere una vita normale, traguardi che solo vent’anni fa potevano apparire irraggiungibili.

E’ con l’introduzione del concetto di U=U (Undetectable= Untrasmittable), avvenuta tra il 2018 ed il 2019, che le persone affette da HIV hanno vissuto un’ ulteriore svolta epocale: con questa sigla il mondo scientifico ha ufficializzato infatti il concetto per cui un paziente con carica virale non rilevabile da almeno 6 mesi e regolarmente in terapia antiretrovirale efficace, condizione attualmente soddisfatta dall’80-90% dei soggetti HIV positivi in trattamento in Italia,  non sia in grado di trasmettere l’infezione a persone sieronegative tramite rapporti sessuali.

Una “globalizzazione” auspicata

Quando affermiamo che i progressi nel trattamento dell’infezione da HIV hanno completamente modificato l’aspettativa e la qualità della vita delle persone sieropositive spesso dimentichiamo che, per quest’infezione come per moltissime altre patologie curabili, una parte considerevole della popolazione mondiale non ha ancora oggi accesso ai farmaci.  Ricordo bene, durante una visita ambulatoriale, le parole di una donna gravida originaria del Burkina Faso che in Africa aveva perso due figli piccoli per colpa dell’infezione: “me ne sono andata dal mio Paese perché almeno il bambino che sto aspettando possa sopravvivere”, aveva detto. Come darle torto? 

Diversi studi hanno dimostrato come l’aspettativa di vita di una persona con HIV possa modificarsi di decenni in base alla regione geografica di residenza; i dati UNAIDS 2020 mostrano come 10,2 milioni di persone affette da HIV, circa un terzo del totale, non abbiano accesso alle terapie. Anche se tali numeri hanno fatto registrare un progressivo miglioramento negli anni, il divario tra Paesi ad elevato e basso reddito rimane inaccettabile. La pandemia di COVID-19 ha ulteriormente accentuato queste differenze, causando in molti Paesi a basso  reddito la completa dismissione dei programmi dedicati alla diagnosi ed al trattamento dell’infezione da HIV; tale rallentamento è stato una delle ragioni del mancato raggiungimento dell’obiettivo “90-90-90” (90% di persone affette da HIV a conoscenza del proprio status, delle quali il 90% sia in terapia efficace con il raggiungimento di una carica virale non rilevabile nel 90% dei pazienti) fissato dall’OMS per il 2020: nonostante i progressi fatti tale traguardo appare oggi ancora piuttosto lontano.

L’obiettivo posto dall’OMS per il prossimo decennio è ancor più ambizioso, ed è riassunto nello slogan “95-95-95” (95% di persone affette da HIV a conoscenza del proprio status, delle quali il 95% sia in terapia efficace con il raggiungimento di una carica virale non rilevabile nel 95% dei pazienti); a questi 3 punti ne è stato inoltre aggiunto un quarto, quello dello “zero stigma” intorno all’infezione da HIV, a sottolineare come l’eliminazione della discriminazione nei confronti delle persone sieropositive  debba assumere un’importanza sempre maggiore nell’ambito della lotta all’HIV/AIDS.

La situazione bresciana

I pazienti con infezione nota da HIV attualmente in carico presso le Malattie Infettive di Brescia sono più di 3800, con 96 nuove diagnosi nel 2020 a fronte di 133 nel 2019, calo verosimilmente influenzato dal sopraggiungere della pandemia da COVID-19.

Il 98% dei soggetti con diagnosi di HIV seguito presso il nostro Centro è in terapia e più del 93% dei pazienti in trattamento presenta una carica virale plasmatica non rilevabile, a dimostrazione dell’elevata efficacia delle terapie antiretrovirali in atto.

Nel 2020 il Comune di Brescia ha sottoscritto la dichiarazione di Parigi entrando così a far parte delle cosiddette “Fast Track Cities”, una rete di città che si impegnano per la messa a punto di strategie atte a raggiungere gli obiettivi ONU per la lotta all’AIDS fissati per il 2030.

Un alone che non scompare

Se dal punto di vista della terapia sono stati fatti passi da gigante, lo stesso non si può dire per quanto riguarda la percezione dell’infezione da HIV nella società.

Inizialmente questa patologia era dai più considerata un’esclusiva di minoranze emarginate quali quelle degli omosessuali o dei tossicodipendenti ed era quindi associata nell’opinione pubblica ad un concetto di colpa, una sorta di espiazione di comportamenti “non allineati”.  Chiunque abbia vissuto negli anni ’90 ricorderà le pubblicità progresso in cui le persone infette si muovevano su musiche inquietanti, circondate da un alone viola che le isolava dagli altri e poteva essere trasmesso a chi si avvicinasse troppo. Non so se e quanto quella trovata pubblicitaria abbia aiutato a ridurre il numero dei contagi, ma posso provare a mettermi nei panni di una persona sieropositiva che si imbattesse in quelle immagini: impossibile non sentirsi un untore o non introiettare, anche inconsapevolmente, quel senso di colpevolezza che l’opinione pubblica attribuiva ai malati.

Anche se con gli anni l’andamento dell’infezione si è profondamente modificato quell’alone viola, purtroppo, continua ad esistere ed a fare danni nell’immaginario collettivo. Lo stigma è infatti ad oggi uno dei più grandi ostacoli che le persone affette da HIV si trovano quotidianamente ad affrontare: la maggior parte dei sieropositivi non comunica il suo stato di malattia per paura di ripercussioni nella sfera privata o lavorativa, ripercussioni che diventano in molti casi realtà ove lo stato di sieropositività venga dichiarato o scoperto.

Se, da un lato, l’infezione da HIV si è trasformata nel tempo da una sentenza di morte ad una patologia cronica gestibile e controllabile, questo profondo cambiamento della storia clinica della malattia ha dall’altro lato portato ad un fisiologico calo dell’attenzione e dell’informazione riguardo l’HIV/AIDS a livello di opinione pubblica, con un conseguente scarto fra i progressi scientifici nella gestione dell’infezione e la percezione dell’infezione stessa all’interno della società. Tale percezione, dettata generalmente da scarsa conoscenza, vive inoltre un paradosso per cui il rischio di infezione da HIV è spesso sottovalutato o non percepito affatto, ma allo stesso tempo le persone sieropositive vengono ancora considerate soggetti pericolosi e da evitare.

L’immaginario collettivo riguardo la persona sieropositiva non si è modificato nel tempo: l’idea che chi si ammala “se la sia andata a cercare” è ancora ben radicata nell’opinione pubblica, così come la credenza secondo cui i malati siano per lo più tossicodipendenti, omosessuali o persone emarginate, “colpevoli” di comportamenti anomali o, peggio, immorali. Intorno all’infezione da HIV aleggia infatti ancora oggi lo spettro della moralità, che tanto ha contribuito alla definizione dello stigma: nella percezione comune un virus trasmesso con i rapporti sessuali si trasforma fin troppo facilmente in un castigo per azioni che fuoriescano dal recinto della normalità, in una lettera scarlatta in grado di marcare, agli occhi della società, i comportamenti non allineati e coloro che se ne macchiano.

Finchè una persona affetta da HIV non si sentirà libera di parlare della propria condizione esattamente come farebbe per qualsiasi altra malattia senza la paura di essere isolata, etichettata o emarginata, la battaglia contro quest’ infezione non potrà considerarsi vinta.
Se inizialmente, a ragione, gli sforzi si sono concentrati sul progresso terapeutico, ora è più che mai necessario focalizzare maggiormente l’attenzione anche sull’aspetto sociale della malattia e sull’impatto che questo può avere sulla qualità di vita dei pazienti, necessità evidenziata anche dalla creazione dell’obiettivo “zero stigma” per il 2030.

Per raggiungere questo traguardo è però necessario partire da un esame di coscienza, perchè quello dello stigma è un problema che purtroppo non risparmia la nostra categoria: troppo spesso anche nella classe medica il pregiudizio attorno all’infezione da HIV sopravvive ed il paziente sieropositivo è guardato con sospetto e diffidenza; tale comportamento è generalmente dettato da una scarsa conoscenza dell’infezione e, soprattutto, dei progressi fatti dalla medicina nella riduzione del rischio di infezione, per cui il soggetto sieropositivo è percepito come una minaccia per la propria incolumità.  Se per un comune cittadino il superamento dei pregiudizi nei confronti dell’infezione da HIV è auspicabile, per un medico diventa un passo imprescindibile e non procrastinabile.

Proviamo allora a pensare per un momento a quanti pazienti con infezione da HIV abbiamo incontrato lungo il nostro percorso professionale: possiamo dire di aver sempre offerto loro la stessa qualità di cura, le stesse procedure e lo stesso trattamento che avremmo riservato ad un paziente sieronegativo? Se questa domanda ci suscita qualche esitazione  avremo la conferma che il lavoro da fare è ancora molto e che, se vogliamo che quell’alone viola possa finalmente dissolversi, il cambiamento deve partire innanzitutto da noi.

Loading

5 1 voto
Valutazione articolo
Iscriviti
Notificami
inserisci il tuo indirizzo e-mail

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

0 Commenti
Inline Feedbacks
Visualizza tutti i commenti

Altri Articoli

Casi clinici

Pregiudizi e prognosi

Casi clinici/ Perché quell’errore prognostico? Cosa l’ha condizionato?
Un caso emblematico che dà voce all’esperienza condivisa da molti medici.

Continua a leggere »
Articolo

Ritorno a Kabul

Dall’Afghanistan ai Paesi teatro di crisi umanitarie, una testimonianza di vita dalla cooperazione internazionale.

Continua a leggere »
Casi clinici

Sentire voci

Casi clinici/ Una tv che parla, anche da spenta. Una riflessione sulla vecchiaia, la povertà e la relazione d’aiuto.

Continua a leggere »
Casi clinici

La famiglia numerosa

Casi clinici/ Qual è la scelta migliore? Un paziente anziano, tanti figli e la difficile mediazione tra bisogni, opinioni e desideri.

Continua a leggere »
Primo Piano

Portaflebo

Casi clinici/ Nell’anticamera di una stanza di ospedale, l’attesa, scandita dal lento passare dei giorni di una settimana.

Continua a leggere »
Primo Piano

A cuore aperto

Innovatore nell’ambito della cardiochirurgia, il prof. Alfieri si racconta in occasione del prestigioso riconoscimento Mitral Conclave Lifetime Achievement Award.

Continua a leggere »
Articolo

Uno sguardo sul futuro

Il discorso tenuto dal presidente CAO, dottor Fusardi, durante l’Assemblea annuale dell’Ordine dei Medici di Brescia, lo scorso 16 aprile 2023.

Continua a leggere »
Primo Piano

La relazione che cura

Il recente episodio di cronaca che ha coinvolto il Centro psicosociale di Orzinuovi offre l’occasione per ragionare su disagio psichico e investimenti in sanità.

Continua a leggere »
Casi clinici

Le sorelle Samantha

Casi clinici/ Una casa popolare in provincia, una pentola che bolle sui fornelli, una donna affetta da demenza, attorniata da una famiglia molto particolare.

Continua a leggere »
Recensione

Il capitale biologico

Recensione del libro "Il capitale biologico – Le conseguenze sulla salute delle diseguaglianze sociali", di Luca Carra e Paolo Vineis.

Continua a leggere »
Primo Piano

Non lasciateci soli

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera della dottoressa Sara Palmieri, apparsa sui media e condivisa da moltissimi colleghi.

Continua a leggere »
Casi clinici

Idem sentire

Casi clinici/ A volte, per riconoscersi, bastano uno sguardo e poche parole. Un’affinità immediata che può nascere anche in una stanza di ospedale.

Continua a leggere »
Primo Piano

Il morbo di K

Nel Giorno della Memoria, il ricordo di un’insolita epidemia che salvò molti ebrei dalla deportazione.

Continua a leggere »
Editoriale

Medicina è cultura

Insieme ai farmaci, anche i testi letterari possono diventare una cura. Per sostituire alla moderna frenesia il benessere offerto dalle buone letture.

Continua a leggere »
Casi clinici

Eleganza medica

Casi clinici/ Seduto accanto al letto c’è un uomo elegante, molto elegante. Nessuno vedendolo potrebbe pensarlo se non medico: è l’archetipo del medico.

Continua a leggere »
Intervista

Al ritmo del cervello

Alberto Benussi, neurologo e ricercatore UniBs, studia nuove metodiche non invasive per sfidare Alzheimer e demenze

Continua a leggere »
Editoriale

Out of pocket

Per mantenere un Servizio Sanitario Nazionale all’altezza della sua tradizione è necessario mettersi in ascolto degli uomini e delle donne che vi lavorano

Continua a leggere »
Casi clinici

Il valore della memoria

Casi clinici/ E’ stato testimone delle tappe più importanti della comunità: la storia di Giuseppe che ricorda la Spoon River di chi non c’è più

Continua a leggere »
Primo Piano

Nodi da sciogliere

La revoca della sospensione dei medici non vaccinati impone una riflessione deontologica importante. Insieme ad un’analisi dei nodi da sciogliere per il futuro.

Continua a leggere »
Casi clinici

Le visite notturne

Casi clinici/ Un uomo anziano e religiosissimo, una confidenza sventurata, il ricovero in ospedale. La ripresa dell’autonomia che passa dalla riscoperta di una complicità perduta.

Continua a leggere »
Editoriale

Si può morire di vecchiaia?

Sulla base del certificato ufficiale di morte, la Regina Elisabetta II sarebbe morta di vecchiaia. Ma esiste la morte per “vecchiaia”? E l’età è di per sé una malattia?

Continua a leggere »
Casi clinici

La figlia di Forlì

Casi clinici/ Una coppia anziana, una figlia lontana e una vicina, il delicato lavoro di composizione del medico. Perché per dare “buoni consigli” bisogna guadagnare i titoli sul campo della quotidianità.

Continua a leggere »
Recensione

Libri/ Racconti psichiatrici

Dei folli, gli psicotici, i matti non si parla più molto. L’esordio letterario di due psichiatri prova a raccontare questo mondo, affidandosi all’intensità degli epigrammi e ad un medical thriller.

Continua a leggere »
Primo Piano

Le “altre” pandemie

Sars-CoV-2 e non solo: le altre pandemie non infettive contribuiscono a distogliere lo sguardo. La guerra, il cambiamento climatico, la crisi di governo. Come sarà l’autunno con tante incertezze all’orizzonte?

Continua a leggere »
Editoriale

Il ruolo sociale del medico

Nonostante i progressi terapeutici e le straordinarie conquiste in campo medico, l’insoddisfazione dei pazienti (ma anche dei medici) è molto aumentata. Analizzarla è il primo passo verso possibili soluzioni.

Continua a leggere »
Primo Piano

Tempi difficili

L’editoriale del direttore Balestrieri analizza il periodo attuale segnato da pandemia, guerra e cambiamenti climatici, alla riscoperta di un senso più autentico della professione medica.

Continua a leggere »
Intervista

La parola è un farmaco

Fausto Manara, psichiatra e psicoterapeuta, innovatore nelle cure per i disturbi del comportamento alimentare, analizza il malessere di un presente inquieto. «Il punto vero è la difficoltà ad avere consapevolezza di chi siamo e quanto valiamo».

Continua a leggere »
Casi clinici

I luoghi della memoria

Casi clinici/ Un incontro inatteso nel silenzio del cimitero riporta alla luce un passato lontano. Alla ricerca di un senso, anche quando i ricordi sembrano svanire.

Continua a leggere »
Primo Piano

Il tempo triste di un mestiere bellissimo

Un sabato mattina d’estate, aspettando di andare al mare. Un improvviso malore e la corsa in Pronto soccorso, scenario di momenti relazionali su cui si misura la vera qualità del medico. Con un ringraziamento postumo, affidato a una cartolina da Rimini.

Continua a leggere »
0
Lascia un commentox