Assiòma s. m. [dal lat. Tardo axioma-ătis, gr. Ἀξίωμα -ατος der. di ἄξιος«degno»] (pl. -i). – Nel linguaggio comune, verità o principio che si ammette senza discussione, evidente di per sé.
In filosofia, principio certo per immediata evidenza e costituente la base per l’ulteriore ricerca.
Definire strumenti di monitoraggio e valutazione
L’assioma che pongo alla base del mio ragionamento, in questa riflessione sull’immediato futuro della medicina generale nell’ambito dell’evoluzione del nostro sistema sanitario nazionale, lombardo in particolare, è il seguente: “Qualsiasi decisione venga adottata, qualsiasi strada venga intrapresa, deve essere preceduta dalla definizione di efficaci strumenti di monitoraggio e valutazione della qualità per certificare il raggiungimento di obiettivi, concordati e condivisi, definiti sulla base del ruolo e delle competenze del medico di medicina generale”.
Non è un passaggio impossibile, forse nemmeno difficile: la definizione di indicatori e standard, ad esempio, per la presa in carico di malati cronici (impegno principale del medico di medicina generale) è un lavoro che in gran parte è già stato fatto, e così come oggi sono strettamente monitorato su quello che spendo al centesimo in farmaci, specialistica, ricoveri, altrettanto è possibile farlo per monitorare come lavoro e cosa produco.
Avere a disposizione efficaci strumenti di monitoraggio e controllo di qualità (quelli per la spesa, abbiamo detto, già ci sono), consentirebbe al decisore una certa libertà di scelta, argomento caro a Regione Lombardia, riguardo il suo atteggiamento nei confronti della medicina generale. Ragionando per estremi, da una parte potrebbe dire al medico di medicina generale: “Questo è il tuo budget, questi sono gli obiettivi e gli standard che devi garantire, questi eventuali incentivi e premi a risultato conseguito: ora vai ed organizzati come meglio credi”.
Impensabile che il medico in solitaria possa assolvere a tutti i compiti che il suo ruolo gli attribuisce. Una soluzione percorribile, in questa prospettiva liberista, potrebbe essere quella di organizzarsi con altri colleghi in cooperative di servizi, cosa che peraltro ha già cominciato ad essere sperimentata con il progetto della presa in carico. All’altro estremo c’è l’opzione (per qualcuno lo spauracchio) del rapporto di dipendenza, che garantirebbe, secondo i suoi sostenitori, una migliore integrazione nel sistema ed un miglior controllo sui medici di medicina generale rispetto al loro status attuale di liberi professionisti convenzionati. Attenzione però a non identificare quello che ho chiamato sistema con il sistema burocratico-amministrativo, bensì con il sistema sanitario, inteso come insieme di amministratori, amministrativi, operatori sanitari e socio-sanitari che concorrono insieme al benessere ed alla salute della popolazione. Anche in questo caso non si può comunque prescindere dall’assioma enunciato all’inizio: la semplice timbratura del cartellino non è sufficiente garanzia di produttività e qualità del lavoro, ma è necessario un sistema di monitoraggio per la verifica degli standard ed il conseguimento degli obiettivi prefissati.
Non mi addentro nella discussione delle problematiche, di non poco conto e difficile soluzione, che il passaggio al rapporto di dipendenza pone, a partire dalla capillarità del servizio offerto dagli studi di medicina generale, che verrebbe meno con gli assembramenti di MMG nelle case della salute o con la difficile sostenibilità economica di altre soluzioni logistiche.
Ho parlato di due soluzioni “estreme”. L’ipotesi più realistica, a breve e medio termine, è comunque quella che vede una conferma della figura del medico di medicina generale come libero professionista convenzionato, inserito, anche se non fisicamente, nella realtà del distretto e delle case di comunità. Affinché questo inserimento sia operativo e si traduca in un effettivo coinvolgimento del medico di medicina generale nel sistema sociosanitario, devono a mio giudizio realizzarsi due condizioni. Da una parte la partecipazione attiva di rappresentanti della medicina generale ai tavoli decisionali del distretto, auspicando che questi tavoli, pur nel rispetto delle linee guida definite a livello di Regione e ATS, abbiano comunque una certa libertà di azione. E quando cito i rappresentanti della medicina generale, faccio riferimento non solo e non tanto a rappresentanti sindacali, quanto a rappresentanti delle costituenti Aggregazioni Funzionali Territoriali.
Coinvolgere e responsabilizzare i MMG, come? Esempi
L’altra condizione risiede in un coraggioso cambiamento di prospettiva nel rinnovo dell’Accordo Nazionale per la medicina generale, sempre nell’ottica di coinvolgere e responsabilizzare non solo formalmente i medici generali nelle vicende del sistema socio-sanitario.
Mi spiego con due esempi, che prendono in considerazioni due aspetti fondamentali del ruolo del medico di medicina generale: prevenzione e assistenza domiciliare.
Vi sembra possibile che l’adesione dei MMG alle campagne vaccinali, anti-Covid o antinfluenzale per restare nell’attualità, sia su base volontaria, e che ogni volta si debba trattare il compenso economico per ogni inoculo? Non dovrebbe rientrare tutto questo nelle competenze e nei compiti di tutta la medicina generale, e come tale essere ricompensata sulla base di obiettivi e risultati raggiunti? Senza contare le difficoltà che questa adesione a macchia di leopardo comporta per gli amministratori, costretti ad inventarsi soluzioni alternative per coprire i “buchi” lasciati dai medici che non aderiscono. Stesso discorso per l’assistenza domiciliare, con una doverosa premessa: la platea di pazienti che necessita di cure domiciliari si va sempre più ampliando. Da qui la necessità di nuove risorse professionali, e quindi economiche, per garantire un’assistenza adeguata: penso ad assistenti sociali, fisioterapisti, palliativisti, ma soprattutto infermieri (valutare parametri vitali, stato di nutrizione ed idratazione, problematiche assistenziali all’interno della famiglia, sono tutte cose per cui le figure infermieristiche hanno preparazione e competenze non sicuramente inferiori a quelle dei medici). Non ha molto senso una retribuzione per ogni accesso, come avviene oggi per l’assistenza domiciliare integrata e programmata, ma sarebbe opportuno ricorrere a modalità per certi versi più complesse, ma sicuramente più responsabilizzanti, che premino l’integrazione fra le varie figure professionali ed i risultati conseguiti.
Le case di comunità
Ultime considerazioni sulle case di comunità. Ho già detto dell’ipotesi irrealistica, almeno a breve e medio termine, di un trasferimento degli studi medici in queste strutture. Forse si potrebbe pensare inizialmente ad ambulatori per le prestazioni non differibili, una sorta di codici bianchi, in cui i medici afferenti territorialmente a quella casa di comunità garantiscono turni di copertura.
Ma come fare affinché la casa di comunità non si riduca ad un semplice poliambulatorio, con annessi uffici amministrativi, ma sia effettivamente il braccio operativo del distretto, con interventi socio-assistenziali coordinati sulla popolazione di assistiti?
Due, a mio giudizio, le condizioni.
Una tecnico-strutturale: strumenti di comunicazione agili ed efficaci (in questo senso l’implementazione digitale ed informatica sono fondamentali).
L’altra, forse più importante, organizzativo-operativa: corsi di formazione che coinvolgano tutte le figure professionali che operano nella casa di comunità, confronti finalizzati alla elaborazione di proposte organizzative e progetti assistenziali che, adeguatamente monitorati e valutati dal punto di vista della qualità e dei risultati (torniamo all’assioma iniziale) responsabilizzino i vari operatori nella collaborazione reciproca per il conseguimento di obiettivi concordati e condivisi a tutti i livelli, con giusta retribuzione e, non ultima, soddisfazione professionale personale e collettiva.