Una vita dedicata all’imaging funzionale, che lo ha portato a tracciare nuove strade, e a creare un gruppo di lavoro coeso che prosegue su quel solco. Raffaele Giubbini è in pensione da qualche settimana, dopo avere diretto per decenni la Medicina Nucleare ed il Dipartimento di Diagnostica per Immagini degli Spedali Civili e la cattedra di Medicina Nucleare dell’Università degli Studi di Brescia. E’ stato testimone dell’evoluzione tecnologica che ha rivoluzionato la diagnostica per immagini negli ultimi decenni, ma pur muovendosi in un mare di macchine futuriste ha sempre privilegiato il rapporto umano, convinto che “le macchine, da sole, non bastano a fare diagnosi”.
Qui si racconta a un intervistatore molto speciale, il presidente dell’Ordine Ottavio Di Stefano, che con Giubbini ha studiato sui banchi dell’Università.
Raffaele, professor Giubbini, ci conosciamo e siamo amici dai tempi del liceo, più di cinquant’anni. Abbiamo condiviso la vita professionale nello stesso ospedale. Oggi che bilancio tracci della tua, della nostra esperienza?
Devo dire che abbiamo vissuto un periodo molto fortunato di transizione della medicina, legato al miglioramento delle potenzialità diagnostiche e terapeutiche in tutti i settori. Una transizione di tipo tecnologico e metodologico, che delle nozioni studiate in sei anni di Università ha visto sopravvivere solo il 4-5%. C’è però un punto fermo che sopravvive ai cambiamenti, ed è la semeiotica. Visitare il paziente è fondamentale per ogni medico, e lo dice chi come me ha fatto diagnostica: se non ti rendi conto delle caratteristiche cliniche del paziente sarà difficile orientare anche la diagnostica più avanzata.
La mia vita professionale è stata particolarmente fortunata, non trovare immediatamente posto a Brescia mi ha portato ad entrare nell’ambiente universitario della Statale di Milano, ricco di nuovi stimoli, come quelli che ho trovato poi al Civile, in veste di direttore della Medicina Nucleare, grazie a tre figure incrociate in maniera casuale e fortuita: Augusto Preti, rettore dell’Università degli Studi di Brescia, verso cui tutti abbiamo un debito di gratitudine per come è riuscito ad affermare l’ateneo cittadino; Lucio Mastromatteo, che era direttore generale degli Spedali Civili, portatore di una visione dell’ospedale non provinciale o autoreferenziale, interessato al confronto con grandi centri medici di livello internazionale; Antonio Chiesa, cattedratico di lungo corso e direttore della 2^ Radiologia, un radiologo proiettato nel futuro. Aggiungo una quarta figura, quella di Adolfo Turano, microbiologo e archiatra pontificio, illuminato consigliere di Mastromatteo.
Eri appena rientrato da un’esperienza oltreoceano, al Philadelphia Heart Institute dell’University of Pennsylvania…
Al Civile, al mio ritorno, ho trovato un ambiente favorevole per sviluppare le mie prospettive professionali sul piano clinico e su quello scientifico. Posso dire che è stata una congiuntura unica, di quelle che difficilmente si ripetono, e che ha portato a una stagione straordinaria, dalla fine degli anni Novanta all’inizio del nuovo millennio.
Noi vecchi siamo portati a dire, quasi un luogo comune, che “noi sì che avevamo la passione”. Ebbene tu che hai diretto per anni una scuola di specialità, cosa pensi dei giovani di oggi?
Che non sono né meglio né peggio dei giovani di ieri. Possono cambiare motivazioni e obiettivi, ma l’entusiasmo, la voglia di fare e l’impegno che avevamo noi lo ritroviamo anche nelle nuove generazioni. Se mai bisogna chiedersi quanto siamo in grado di motivarli, dal punto di vista scientifico, culturale ma anche economico.
Molti di noi hanno la sensazione che si sia spezzata quella catena solidale fra le generazioni mediche. Tutti noi abbiamo rubato il mestiere agli anziani, ma loro ce lo facevano fare, da veri mentori. Ora non è più così? Sono i vecchi meno disponibili o i giovani pensano che la tecnomedicina dia le risposte a tutto?
Oggi il medico può contare su supporti tecnologici formidabili nella decisione, ma deve saperli usare. Davanti all’intelligenza artificiale che sa interpretare una Tac, una Pet o una risonanza in modo sovrapponibile a quello di un medico esperto, la nostra funzione cambia: non è più solo quella di “leggere” le immagini, ma di integrare gli elementi diagnostici “ipertecnologici” nella storia clinica del paziente. Servono medici, non tecnocrati, e anche l’esperto di imaging deve diventare esperto clinico di quelle immagini, aperto al confronto multidisciplinare. In questa prospettiva le diverse specialità si dovranno sempre più integrare per gestire in maniera coordinata il percorso diagnostico del singolo paziente: penso all’Heart team, alla Thyroid unit, ai gruppi di lavoro sulle patologie oncologiche gastroenteriche, sui tumori neuroendocrini.
Quanto ai giovani, mi piace ricordare che di fatto le redini della Medicina nucleare di Brescia sono state prese in mano da figure capaci di stimolo e dialogo con tutti, e in particolare con gli specializzandi fin dai primi anni: il prof. Bertagna, che a 44 anni è diventato ordinario di Diagnostica per immagini, e il dottor Albano, ricercatore capace di coltivare rapporti e generare interessi fra i più giovani. Non dimentichiamo, inoltre, che la formazione degli specializzandi è anche legata al confronto quotidiano con Medici Ospedalieri ed anche in questo caso la Medicina Nucleare annovera un gruppo molto giovane che mi fa piacere ricordare: Barbara Paghera, Giovanni Bosio, Silvia Lucchini, Mattia Bertoli, Alessia Peli, Valentina Zilioli, Elisabetta Cerudelli, Marina Gazzilli.
Quali sono stati i tuoi maestri?
Il prof. Bestagno, più un maestro di vita che di professione. Ben presto i nostri interessi si sono indirizzati su settori diversi, lui molto più clinico, interessato alle patologie endocrine, io proiettato sulle patologie funzionali. Ma la sua integrità morale, la disponibilità, le capacità organizzative e pratiche erano esemplari, e Bestagno è sempre stato un modello cui ispirarsi. Da Bestagno ho imparato che tutti noi abbiamo aspetti positivi e negativi: la cosa importante è enfatizzare quelli positivi.
Come compagno di viaggio, invece, non posso dimenticare Arturo Terzi, che ha dedicato la sua vita alla clinica ed è stato una figura insostituibile in reparto.
La tua specialità ha sempre fatto da apripista nell’evoluzione tecnologica. Eri assistente quando dominavano le scintigrafie tiroidee, ossee e polmonari. Hai portato la cardiologia nucleare a Brescia negli anni ’80. Oggi con la Pet il raggio d’azione si è ulteriormente ampliato. Quale lo stato dell’arte nella medicina nucleare?
Accanto ad aspetti ormai consolidati ci sono ambiti, come quello cardiologico, in cui la comparsa di altre tecniche di imaging morfo-funzionale (come risonanza e Tac coronarica) hanno posto il problema della loro integrazione nel percorso clinico: se una prevale sulle altre si creano infatti disomogeneità. Ad esempio a Brescia c’è ancora una prevalenza non giustificata della cardiologia nucleare sulle altre tecnologie (con conseguenti liste di attesa di parecchi mesi), quando alcune diagnosi potrebbero essere invece gestite con altre metodiche.
Va tenuto conto che in questo ambito un risultato negativo di un esame può essere un valore più che positivo. Pensiamo a un paziente con coronaropatia: avere un esame funzionale quasi normale vuol dire che la sua prognosi è quasi analoga a quella di una persona normale. Ciò significa poter identificare una popolazione a basso rischio di eventi coronarici: per questo riceviamo un’infinità di richieste.
Riguardo invece alla Pet di Brescia, ricordo che nel 2005 è stata, grazie all’intuizione del direttore Mastromatteo, la prima Pet pubblica della Lombardia. Brescia si è anche dotata di una struttura dedicata per la produzione di radiofarmaci utilizzati nell’esecuzione delle indagini Pet: un investimento preveggente che ha consentito di abbattere significativamente i costi degli esami ed ampliare il panorama di possibili applicazioni.
Tornando ai giovani, il corso di studi di Medicina privilegia l’apprendimento su metodiche che consentono un approccio diagnostico non pensabile fino a pochi decenni fa. Ma la relazione con il paziente, senza romanticismi, che valore ha?
Penso che il corso di Medicina debba essere traghettato verso altre prospettive, e che sconti una troppo elevata frammentazione dei programmi di studio. Il rapporto medico-paziente, ad esempio, non è preso in considerazione in maniera adeguata, e l’esperienza con la medicina di base non dovrebbe avvenire dopo la laurea, ma andrebbe anticipata già nei primi anni di formazione universitaria, per accostarsi alla raccolta anamnestica, ai principi della semeiotica, al follow up domiciliare. Per molti esami specialistici, inoltre, è forte la tentazione di uno studio nozionistico, che assicura conoscenze facilmente dimenticabili dopo il superamento dell’esame. Forse anche per questo, in sede d’esame, usavo chiedere ai miei studenti di parlare di un argomento a piacere: più che un atto di generosità, era un efficace strumento per capire se avevano acquisito una metodologia ed erano in grado di sviluppare un discorso logico sull’argomento.
Hai diretto il Dipartimento di Diagnostica per immagini del nostro Civile. Come vedi l’ospedale di oggi e di domani?
Nella sua crescita il Dipartimento non ha intrapreso negli ultimi anni un parallelo sviluppo di semplificazione, anche architettonica, e organizzazione adeguata. Questo non è certo responsabilità dei professionisti di altissimo profilo che vi lavorano – da Maroldi e Grazioli a Gasparotti della Neuroradiologia, da Vezzoli e Cristinelli per Gardone Val Trompia, da Tagliaferri e Scipione a Montichiari, alla dott.ssa Bondioni per la Radiologia pediatrica. Penso alla dispersione dell’équipe di Neuroradiologia su tre poli di risonanza magnetica, perché non si dispone di un’unica struttura di diagnostica per immagini.
Per il futuro auspico che la ristrutturazione complessiva del Civile, con l’abbattimento del Satellite, possa portare a una riorganizzazione efficace: affidare a un concorso europeo di idee l’ideazione dei nuovi spazi dovrebbe garantire una visione di più ampio respiro.
Da “esperto” di sistemi informatici, quali sono a tuo avviso gli strumenti da implementare per l’integrazione con il territorio?
Finché la medicina del territorio e quella ospedaliera rimarranno due mondi separati che si parlano solo con ricette e referti sarà difficile l’integrazione. Da parte mia rimango convinto che elementi di semeiotica dell’immagine andrebbero condivisi proprio con la medicina territoriale, pur non essendoci molti corsi mirati.
Rilevo, a margine, che è in atto un’annosa “battaglia” tra super specialisti e radiologi. Si prendano ad esempio i neurochirurghi e i neuroradiologi: i primi ritengono di poter interpretare una Tac o una risonanza come i secondi, da qui le polemiche persistenti sulla possibilità di leggere le immagini prima del referto.
Vuoi dire che la tecnologia ci consente di guardare con sempre maggiore precisione all’interno del corpo umano, ma con limitazioni? E allora, come si legge un’immagine prodotta da una macchina?
Vale la pena ricordare che le immagini che noi vediamo in digitale non sono la realtà, ma un’interpretazione della realtà basata su numeri, che rappresentano un’immagine attraverso scale di grigi o colori. Proprio perché non sono la realtà, possono contenere artefatti e variabili tecniche in grado di modificare l’esame, se non interpretati da un occhio esperto. Il fatto stesso di osservare l’immagine su uno schermo comune o sugli schermi del Dipartimento di Diagnostica per immagini, schermi di qualità medicale ad altissima risoluzione digitale (e costi molto elevati) fa la differenza. La stessa immagine letta in Neuroradiologia o Neurochirurgia può avere contenuti molto diversi. Ed è singolare notare come nel novero delle indagini che presentano maggiori difficoltà interpretative ci siano proprio gli esami ritenuti più banali: una radiografia al torace presenta talmente tante variabili da prestarsi facilmente ad errori interpretativi e “sbandate”. Lo stesso vale per la mammografia, che necessita la decodifica di un ventaglio di variabili e segni resi visibili da tecnologie estremamente raffinate.
Il tuo impegno si proietta anche nella IAEA (International Atomic Energy Agency), l’agenzia delle Nazioni unite che si occupa dell’impiego pacifico dell’energia nucleare ed, in tal senso, anche della diffusione della Medicina Nucleare.
La IAEA, tramite un suo specifico settore, finanzia la creazione di laboratori di Medicina Nucleare e il training degli operatori. In epoca pre Covid accoglievamo medici da tutto il mondo e assicuravamo la supervisione per far partire le attività nei diversi Paesi. A me è sempre piaciuto viaggiare ed ho avuto il piacere e l’onore di far partire decine di laboratori in Est Europa, Asia, Africa e Sud America: da pensionato, mantengo la collaborazione in protocolli di ricerca a Vienna, sede della IAEA. E ad ottobre volerò a Rio de Janeiro, per ricevere la laurea honoris causa dall’Università Federal Fluminense, in occasione del congresso internazionale di Cardiologia, un opportunità per rivedere grandi amici brasiliani in epoca post-Covid.