Massimo Corda, interne in Medicina d’Urgenza a La Réunion, è stato conquistato dai territori francesi d’oltremare: “Qui si viene buttati subito sul campo, ma è proprio misurandosi con atti pratici che si acquisisce autonomia e sicurezza”.
Un’isola sperduta nell’Oceano Indiano, un melting pot di culture, un dipartimento francese dal gusto più esotico e intenso. E’ qui che sta completando la sua specializzazione in Medicina d’Urgenza il dottor Massimo Corda, trentenne bresciano “emigrato” Oltralpe, da dieci mesi di stanza a La Réunion, isola affacciata alla costa orientale del Madagascar, che costituisce un dipartimento e regione d’oltremare della Francia.
Alla Réunion le stelle sembrano più vicine dal Piton des Neiges, la cima più alta dell’Oceano Indiano. Dalle coltivazioni della costa est gli aromi della vaniglia Bourbon solleticano i sensi, mentre il profilo sinuoso del Piton de la Fournaise, uno dei vulcani più attivi al mondo, lascia senza fiato più volte all’anno con i suoi zampilli incandescenti.
Ma il contesto tropicale non tragga in inganno: i servizi sanitari dell’isola sono articolati secondo un’organizzazione e un approccio europeo. Abbiamo chiesto a Massimo Corda di raccontarci la sua esperienza.
Ti sei laureato in Medicina all’Università di Siena, hai compiuto il tirocinio abilitante a Brescia, tua città natale. Da dove origina la tua scelta di specializzarti all’estero?
Avevo provato l’esame per entrare in un percorso di specialità in Italia, ma non avevo ottenuto la scuola e la città che volevo. Un po’ per caso, tre anni fa, ho saputo della possibilità di provare in Francia, dove la selezione avviene per concorso nazionale, come in Italia. Pur non parlando francese ho fatto il test a Rennes, sono passato e fra le opzioni disponibili ho scelto la Medicina d’Emergenza-Urgenza a Parigi.
Com’è stata questa prima esperienza?
Avevo voglia di vivere un periodo “metropolitano” in una grande capitale, e mi è piaciuto moltissimo. Il primo stage l’ho fatto in un classico Pronto Soccorso per adulti, poi sono passato alla Medicina interna: in Francia le scuole di specialità si articolano in stage, di sei mesi in sei mesi si cambia ospedale, e Parigi è il fulcro del sistema, con almeno 40 ospedali universitari.
Dopo due anni parigini è arrivata la chiamata dei territori d’oltremare.
E’ iniziata quella che chiamo la mia seconda fase. La prima destinazione è stata l’isola di Mayotte, che dal punto di vista geografico è parte dell’arcipelago delle Comore, situata tra il versante settentrionale del Madagascar e il Mozambico: è l’ultimo dipartimento francese annesso, ma è Africa sotto tutti gli aspetti, compresa la lingua parlata, che è prevalentemente un idioma locale. Ma il sistema sanitario funziona bene e offre risposte efficaci ai 400 mila abitanti. Lì ho fatto uno stage di sei mesi in Medicina interna e Malattie infettive. Poi, dopo Mayotte, ho scoperto La Réunion: un dipartimento molto più “europeo” per impostazione, lingua, espressione di una cultura francese al 100%. Qui ho proseguito il mio percorso con uno stage in Rianimazione, che si è appena concluso. Per rimanere a La Réunion ho da poco iniziato un altro stage in Urgenze pediatriche.
Il Pronto Soccorso è un universo composito di molteplici aspetti, in prevalenza intensivistici, e a volte il carico per chi vi lavora risulta schiacciante, se non frustrante, comunque difficile da gestire. E’ così anche in territorio francese?
Lo scenario è molto simile a quello italiano. C’è l’urgenza pura, da codice rosso, ma la fetta più grande della torta è formata da codici verdi e bianchi, che arrivano in Pronto Soccorso magari perché non sono riusciti ad avere un appuntamento con il proprio medico curante. Una situazione che ho osservato molto frequentemente a Parigi – ricordo ancora le lunghe giornate ai Pronto Soccorso della capitale, oberati di accessi – e che riscontro anche qui nelle urgenze pediatriche: sulle 24 ore si registra un 20-30% di passaggi per codici a bassa intensità. Il denominatore comune sono le inevitabili lunghe attese, presenti ovunque.
Si dice che la nostra preparazione universitaria sia buona dal punto di vista teorico, ma carente sotto il profilo pratico. Come ti sei trovato in Francia?
Sono stato letteralmente buttato nella mischia: a Parigi, dopo la presentazione dell’ospedale, mi è stata subito affidata una lista di pazienti da visitare, prescrizioni da fare, sempre con il riferimento dello chef, il medico strutturato. L’impatto è stato forte, come non mi era mai capitato né a Siena né a Brescia: avverti il senso di una responsabilità particolare. Del resto la parte pratica qui è estremamente sviluppata, già dagli ultimi anni di Università lo studente è proiettato verso stage sul campo. Poi capisci che è proprio attraverso atti medici come l’inserimento del catetere venoso centrale, o l’intubazione di un paziente, che noi “internes”, come vengono chiamati gli specializzandi, possiamo diventare sempre più autonomi.
Uno scenario molto diverso da quello italiano: lo ritieni migliore?
Sono in contatto con compagni di facoltà che si stanno specializzando in Italia, soprattutto in ambiti chirurgici, dove la pratica è cruciale. Eppure quello che fanno rimane limitato, domina ancora l’idea di essere in seconda o terza fila rispetto al professore o al medico referente, piuttosto che sperimentarsi in prima linea con interventi di routine come avviene in Francia. Questa differenza è dirimente. Non a caso il livello di autonomia raggiunto Oltralpe soddisfa la maggior parte dei colleghi.
Il punto è che dopo sei anni di nozioni teoriche arriva il momento di mettere in pratica quanto appreso: in fondo anche sbagliare serve per perfezionarsi, rifinire il gesto, continuare a migliorarsi.
Il tema della Medicina d’urgenza è particolarmente caldo, si assiste alla fuga dei medici dai Pronto Soccorso e molti posti nella scuola di specialità sono stati snobbati nell’ultima tornata. La tua appare una scelta controcorrente, cosa ti spinge a perseguirla?
Anche in Francia c’è lo stesso problema delle borse vacanti nei settori d’urgenza, soprattutto nella Rianimazione, acuiti in periodo post Covid. A pesare è sicuramente lo stress, che insieme ai ritmi di lavoro usuranti viene percepito frequentemente nell’emergenza, non solo dai medici più maturi ma anche dalle persone della mia età. Quanto alla mia scelta personale, confesso di non aver mai avuto il fuoco sacro della Medicina d’urgenza o l’attrazione per l’adrenalina di interventi che “salvano la vita”. Il mio desiderio era fare qualcosa di pratico, compiere dei gesti medici con un risultato immediato, e nella Medicina d’urgenza ho visto proprio questo: cercare di individuare e di risolvere le problematiche delle persone che chiedono il nostro aiuto. Spaziando dalle malattie infettive alla medicina interna, fino alla rianimazione.
Di questo lavoro mi piace la grande varietà delle patologie da affrontare, il contatto quotidiano con stimoli nuovi, la possibilità di imparare di volta in volta, da ogni singola esperienza.
Sei avviato a concludere il tuo percorso di formazione specialistica: una volta ultimato pensi di rientrare in Italia?
In questo momento tornare in Italia non è tra le mie prime opzioni. Una volta specializzato, da giovane “chef” avrò la possibilità di viaggiare in tutti questi territori d’oltremare, ed è una prospettiva che mi piacerebbe, dato che dopo la specializzazione è più facile muoversi da un ospedale all’altro: i territori caraibici e polinesiani sono sulla mia lista. Un progetto possibile anche grazie al buon livello economico riconosciuto in Francia, dove la remunerazione è più elevata rispetto all’Italia anche per gli specializzandi: una delle grandi differenze, ad esempio, è che tutte le guardie aggiuntive sono pagate (personalmente ritengo assurdo che una guardia non sia retribuita). E per chi sceglie di lavorare nei territori d’oltremare c’è un premio del 40% in più rispetto allo stipendio base.
Un messaggio in bottiglia da lasciare a uno studente del sesto anno di Medicina?
Il mio suggerimento è di provare a fare un’esperienza all’estero. Da uno scambio europeo c’è tutto da guadagnare. Io ho ancora rimpianti per non aver fatto l’Erasmus, che in medicina è piuttosto raro. Ho recuperato dopo, ed è una scelta di sicuro arricchimento. Credo che ciascun giovane dovrebbe averla nel bagaglio formativo, per guardare al mondo con un orizzonte più ampio.